Sotto la lente

Tutti i rischi della sostenibilità finanziaria

Il Dalai Lama lo ha definito «altruismo egoistico», gli studi economici lo descrivono più comunemente come «altruismo impuro» o «warm glow». Sono diversi i modi per descrivere l’atteggiamento di persone che scelgono di donare, consumare o investire in modo sostenibile, motivati dal desiderio di fare del bene, ma soprattutto personalmente gratificati dal gesto fatto.

Sapere perché le persone fanno quello che fanno è in genere utile e oggi lo è in modo particolare per chi, come per esempio regolatori e grandi investitori istituzionali, mette in atto azioni volte a canalizzare il risparmio e gli investimenti verso progetti sostenibili. La finanza sostenibile è uno dei mantra degli ultimi anni, ma il percorso per metterla in atto è complicato sia per chi offre strumenti di investimento marchiati ESG, sia per chi, appunto, domanda maggiore sostenibilità per i propri risparmi. Le persone esplicitano preferenze per ciò che è green o in generale responsabile, ma poi nei fatti si comportano in modo diverso da quanto dichiarato. È quanto, da tempo, mostrano studi empirici dedicati al consumo responsabile e, più recentemente ricerche relative agli investimenti ESG. L’indagine 2021 della Consob sui comportamenti dei investitori italiani mostra per esempio che oltre il 70 per cento delle famiglie italiane mostra interesse per gli investimenti sostenibili, ma meno del 10 per cento effettivamente li possiede.

L’economia comportamentale affronta questo fenomeno noto come «intention-action gap», e prova a suggerire all’industria finanziaria e ai regolatori metodi volti a superare i fattori cognitivi che spesso spiegano tale atteggiamento. Come già avviene per gli elettrodomestici, vedremo presto degli «eco label» per i prodotti finanziari. La strada della trasparenza e della semplificazione cognitiva è fondamentale per attivare un maggiore coinvolgimento degli investitori verso la sostenibilità, e su queste misure si stanno concentrando sforzi notevoli nell’industria e nella regolamentazione finanziaria.

Con riferimento a questo ultimo fronte, in Europa nel 2021 è entrata in vigore una regolamentazione (Sustainable Finance Disclosure regulation SFDR) che impone agli investitori istituzionali di informare il mercato sul modo in cui scelgono i loro investimenti, classificando i prodotti di investimento in grigio, verde chiaro e infine verde scuro, in base ai livelli di sostenibilità.

Anche altre amministrazioni in giro per il mondo si stanno muovendo in questa direzione, ed è sulla strada della trasparenza che si concentrano maggiormente i loro sforzi. Sembra dunque reiterarsi una convinzione presente nell’industria finanziaria, ovvero che attraverso un’opportuna e modulata trasparenza informativa si possano risolvere i bias comportamentali degli investitori. La trasparenza è importante, ma non è mai un proiettile d’argento e proprio in un ambito come questo la sua efficacia potrebbe essere ulteriormente sopravalutata proprio perché il «warm glow» rischia di vanificare l’impatto di strategie centrate solo sulla comprensibilità. Razionalmente, si potrebbe supporre che se io so che l’investimento A aiuta a ridurre 10m3 di CO2 e l’investimento B ne abbatte 100, avendo preferenze per il miglioramento climatico sceglierò B; ma svariati studi sperimentali, mostrano che non è così per chi seleziona sulla base di una propensione alla sostenibilità impura.

Se scelgo di investire in un prodotto verde soprattutto per il benessere personale che ne derivo, non mi soffermerò sulla palette colori delle diverse sfumature. Questo modo di comportarsi delle persone complica la situazione e, tra le altre cose, rende potenzialmente ancora più drammatico il problema del greenwashing. In questo contesto, è di grande attualità una riforma della direttiva MIFID 2 che entrerà in vigore nel mese di agosto 2022 e che prevede che, nell’offrire servizi di investimento, gli intermediari finanziari raccolgano dalla clientela informazioni sulle loro preferenze per la sostenibilità in modo da proporre prodotti adeguati anche a tali esigenze. I rischi concreti sono che, pur immaginando una larga attenzione ai temi della sostenibilità da parte della clientela, non si ottengano i risultati voluti sul fronte della canalizzazione dei capitali verso progetti più sostenibili e si manifestino nuove minacce alla tutela degli investitori, frutto della commercializzazione di prodotti più costosi o meno performanti sul fronte rendimento-rischio in cambio di una etichetta green.

I rischi paventati possono trovare soluzioni più soddisfacenti agendo sia sulla domanda sia sull’offerta di investimenti sostenibili. Sulla prima, potrebbero essere efficaci forme di nudging che ne influenzino il comportamento facendo leva su norme sociali che veicolino il messaggio che ciò che conta non è solo scegliere sostenibile, ma quanto sostenibile. Sulla seconda, può impattare una regolazione e una declinazione degli investimenti sostenibili che non si limiti alla trasparenza ma che vada a perimetrare il comportamento di intermediari, investitori istituzionali e non da ultimo imprese emittenti, rendendoli tutti più accountable relativamente alle azioni e alle scelte effettuate. In altre parole, è necessario che prevalgano condizioni volte a evitare che anche le istituzioni incorrano nel rischio di «warm glow». Pertanto, un intermediario finanziario che decida a priori di concentrarsi sulla commercializzazione di prodotti finanziari verde scuro può incidere, così come un’impresa che inserisca nella sua matrice di materialità obiettivi di sostenibilità sempre più sfidanti. Purtroppo, a oggi sono ancora troppo diffusi gli esempi di imprese che emettono con successo green bond per finanziare specifici e circostanziati progetti ambientali, senza però modificare radicalmente il proprio purpose in ambito di sostenibilità e senza che nessuno ne penalizzi le scelte non virtuose finanziate con altre fonti finanziarie. A onor del vero, vi sono sempre più esempi di istituzioni che provano ad andare nella direzione auspicata. Vale la pena ricordare soggetti come BlackRock, il più grande asset manager internazionale, o il fondo sovrano norvegese, anch’esso tra i più importanti investitori a livello mondiale, che per primi hanno deciso di adottare criteri ESG stringenti nelle loro strategie di investimento che li ha portati a ridurre in modo significativo la propria partecipazione in società poco virtuose.

Bene dunque? Solo in parte, perché penalizzare escludendo è l’approccio più comune e anche più facile da mettere in atto, mentre una declinazione più compiuta dello «stakeholder capitalism» richiede anche altre azioni, che si sostanziano, per esempio, nell’influenzare direttamente i consigli di amministrazione. In questo modo, gli investitori possono dimostrare che i loro obiettivi vanno sempre più oltre la massimizzazione del profitto e si estendono al più ampio benessere della società.

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