Lo scorso giugno al Parlamento europeo di Bruxelles, insieme ad alcune tra le aziende più avanzate del sistema moda e con la collaborazione di CNA Federmoda, abbiamo presentato delle proposte concrete, contenute in un joint position paper del Monitor for Circular Fashion (M4CF) SDA Bocconi, per aiutare i policy maker europei a scrivere regole più eque per il settore e davvero all’altezza delle ambizioni ambientali e sociali che l’Europa si è data.
Come M4CF, lavoriamo da anni con imprese che investono nella circolarità come strategia industriale, non solo come dichiarazione d’intenti. E il messaggio che abbiamo portato alle istituzioni europee è molto semplice: chi fa innovazione circolare oggi rischia di essere ostacolato da regole pensate per il mondo lineare di ieri.
Sulla gestione dei rifiuti, ad esempio, le aziende chiedono da tempo criteri chiari per distinguere tra rifiuti e sottoprodotti, o per riconoscere quando un materiale riciclato può uscire dallo status di rifiuto (il cosiddetto “End of Waste”). Senza queste definizioni, molte iniziative virtuose restano incagliate in ambiguità normative. Inoltre, l’attuale quadro spesso equipara il riciclo all’incenerimento, disincentivando le opzioni più sostenibili lungo la gerarchia europea dei rifiuti.
Sul fronte dell’ecodesign, servono regole che promuovano la durabilità, la riparabilità e il riciclo dei prodotti, senza cadere nella tentazione di standard troppo generici. I prodotti e i materiali del sistema moda sono estremamente diversi: fissare soglie uniche può penalizzare proprio chi sperimenta soluzioni nuove. Occorrono invece parametri tecnici specifici, validati insieme alle imprese, che tengano conto delle caratteristiche reali dei materiali e dei contesti d’uso.
Il Passaporto Digitale di Prodotto (DPP) è un’altra grande opportunità — se ben disegnata. Ma oggi c’è il rischio di creare un sistema opaco e poco interoperabile, che impone oneri burocratici senza produrre vera trasparenza. Per questo le aziende hanno l’esigenza di standard comuni e armonizzazione con le nuove regole sull’etichettatura: se il consumatore riceve messaggi incoerenti, la fiducia va in crisi.
E poi c’è l’impatto sociale. Molte imprese del settore hanno già adottato standard internazionali (come SA8000, SLCP o le linee guida OCSE) per tutelare i lavoratori lungo le catene di fornitura, che nel TCLF (Textile, Clothing, Leather e Footwear) sono complesse e frammentate. Ma i nuovi obblighi europei rischiano di ignorare questi progressi, imponendo nuove verifiche solo sul primo livello della filiera. Peccato che i rischi più gravi, come lavoro forzato o sfruttamento, si annidino proprio oltre quel primo livello. Serve una due diligence più profonda, per premiare chi investe nella tracciabilità anziché affidarsi a scorciatoie formali.
Tutto questo non è una richiesta di sconti, ma un appello a una regolazione più efficace. Le aziende che rappresentiamo non chiedono meno ambizione, ma più coerenza. Buone regole non servono solo a vietare: servono a rimuovere ostacoli, valorizzare le pratiche migliori e garantire una competizione equa anche rispetto a prodotti importati, che oggi spesso sfuggono ai requisiti ambientali e sociali europei.
Il settore moda è già cambiato. È giusto che la regolazione europea lo segua. Con il contributo delle imprese più attente e con un confronto aperto, Bruxelles ha oggi l’opportunità di scrivere norme che non frenino, ma abilitino, la trasformazione circolare della moda. Il cambiamento è già in corso e può fare dell’Europa un punto di riferimento globale per un’industria più giusta, più trasparente e davvero sostenibile.