
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 8 mag 2025
- 6 giorni
- Class
- Italiano
Per aver sotto controllo i parametri di EBITDA, PFN, valore d'azienda, gli indicatori che misurano il successo aziendale e capire come farli crescere costantemente.
Mi fa piacere raccontare la storia di WAMI – Water With a Mission, per tre motivi. Innanzitutto perché i valori che la muovono sono sentiti e non “di facciata” (è una start-up imperniata veramente sui concetti di economia circolare e di sostenibilità che sono parte fondante del suo modello imprenditoriale e non solo del suo piano di marketing). In secondo luogo perché è stata fondata da due ragazzi italiani che, non avendo alle spalle una dinastia imprenditoriale, ce la stanno mettendo tutta per vendere le loro bottigliette d’acqua nonostante la crisi provocata dalla pandemia. Infine perché, quando sono partiti, questi giovani non avevano l’obiettivo di crescere per vendere al meglio e prima possibile la società ma di fare impresa, di diventare riconoscibili, di lasciare un segno positivo in un settore, come quello dell’acqua, dove tutto sembrava ormai già visto. Non turbo finanza ma voglia d’impresa.
WAMI è un brand nel mondo beverage creato da Giacomo Stefanini e dal suo socio Michele Fenoglio nel 2016. Dopo la laurea in Bocconi e qualche anno di esperienza in società multinazionali, essendo coetanei, a soli 27 anni hanno lasciato i loro contratti a tempo indeterminato per fondare una loro impresa. WAMI nasce con la missione di donare l’accesso all’acqua alle popolazioni che a oggi ne sono prive. Gran parte dei progetti idrici che vengono sovvenzionati da questa società si trovano in Africa, dal Senegal all’Etiopia e alla Tanzania, ma ora si stanno spostando anche in altre aree del mondo come lo Sri Lanka e l’Ecuador. WAMI è una start-up legata a un gesto piccolo e quotidiano che i consumatori possono compiere semplicemente scegliendo questo brand al posto di quello di un’altra marca, contribuendo così a qualcosa di più grande. Nasce dalla volontà di fare impresa in un modo diverso, grazie all’ispirazione che ha avuto uno dei due soci, ovvero vedere applicato un modello di business che sia anche sostenibile. Questo modello, chiamato in America “buy one give one” e creato da Toms Shoes, un celebre marchio di scarpe, vuole che quando una persona acquista un certo tipo di prodotto, questa doni la stessa tipologia di bene a un altro soggetto con un identico bisogno. I due fondatori sono rimasti fin da subito colpiti dalla semplicità di tale formula capendo che è possibile creare un nuovo tipo di impresa che non guarda soltanto al profitto, ma anche, per una quota, alla sua restituzione.
L’idea di fondo è che facendo impresa si possa fare qualcosa di diverso e di meglio anche per gli altri. Senza inventare completamente ex-novo la loro formula, hanno cercato di traslare il modello di business Toms dalle scarpe all’acqua, che in Italia rappresenta un mercato molto importante, ma soprattutto un bene essenziale per la vita non disponibile in modo equo nel mondo. Esistono infatti circa 700 milioni di persone (pari quasi all’intera popolazione europea) che ancora oggi non vi hanno accesso. Unendo queste due dimensioni i due ragazzi hanno creato WAMI.
Definita l’idea, la strategia iniziale è stata quella di selezionare un fornitore per l’imbottigliatura e di specificare nell’etichetta e in tutte le presentazioni la mission aziendale, permettendo ai consumatori e ai clienti di capire questo meccanismo di solidarietà incluso nel prezzo e poterne tracciare l’impiego. I canali inizialmente serviti, anche e soprattutto per un limite dimensionale, sono stati i bar, i ristoranti, le società di catering aziendale e le mense con riferimento al mercato nazionale (Nord Italia). Poi è stato aperto un secondo mercato: quello delle aziende che acquistano WAMI per dare concretezza ai loro progetti di responsabilità sociale. Pur trattandosi di ridotti investimenti iniziali, i due soci, non sono stati in grado di sopperire da soli alle necessità finanziare per l’avvio dell’attività. Nello stadio di avvio di questa italianissima start-up si sono avvalsi dell’aiuto di familiari e amici, oltre che dei propri risparmi. Solo in una seconda fase, quando l’attività ha iniziato ad ampliarsi, Giacomo e Michele hanno deciso di rivolgersi a investitori istituzionali: “Per quanto riguarda la capacità di attrarre investimenti, crediamo che più che avere qualcosa di vincente nel business plan sia importante riuscire ad andare a parlare con le persone giuste. Quando WAMI ha iniziato a cercare investitori, a parte avere un plan che mostrava un break-even e una profittabilità significativi, siamo andati alla ricerca di soggetti che avessero a cuore i nostri stessi valori. Probabilmente, un operatore puramente finanziario non interessato all’impatto sociale e ambientale non sarebbe mai stato interessato a investire in WAMI. Come ci ha suggerito uno degli investitori a cui teniamo maggiormente, bisogna fare la ricerca inversa, ovvero non è l’investitore che si propone alle startup, ma sono le startup che devono sceglierlo e tentare di ottenere un colloquio. Quindi abbiamo cercato di andare a parlare con tutte quelle persone che ritenevamo in linea con il nostro progetto perché, appunto, non dovevamo convincere nessuno della sua bontà, ma piuttosto trovare un allineamento di valori a priori”.
Non tentare di rientrare in porto a tutti i costi quando il mare è in tempesta
L’azienda è cresciuta con continuità esattamente fino a un anno fa, prima del Covid, arrivando ad impiegare una quindicina di persone con un fatturato di un milione di euro. Poi la pandemia nel giro di pochi mesi ha colpito duramente proprio i canali in cui WAMI è più esposta: l’Ho.re.ca e quello aziendale. La reazione dei due soci, dato la situazione tragica, non è stata quella di tentare di rientrare in porto a tutti i costi o di abbandonare la barca quanto piuttosto prendere il largo e prendere tempo per pensare a nuove idee da lanciare non appena la situazione fosse migliorata. Sono nati così, in quei mesi di stallo forzato del mercato, il nuovo packaging dell’acqua in lattina, una linea di thè freddi con infusi provenienti dai paesi a cui WAMI restituisce progetti di sostegno idrico e una linea di borracce. In piena tempesta la reazione non è stata né di panico né opportunista. Non si è abbandonata la strategia originaria per seguire la rotta (dove andavano tutti magari senza fare bene i conti) della consegna a domicilio. La tattica è stata quella di approfittare del “fermo macchine” per mettere in cantiere nuove proposte e poter rafforzare poi la penetrazione dei canali scelti fin dall’inizio. Così facendo, già nei mesi di luglio e agosto scorso, WAMI ha fatturato più dell’anno precedente e si accinge ad affrontare la prossima estate con i nuovi prodotti. Le persone a bordo sono rimaste le stesse e si prefigura una nuova assunzione per sviluppare il canale “aziende”. Si sta ragionando su un ulteriore aumento di capitale vagliando finanziatori istituzionali con l’idea di occupare con gradualità, in tutta Italia, la nicchia dell’acqua solidale acquisendo consumatori attenti a questa diseguaglianza. Permane in questi giovani imprenditori l’idea dell’azienda come un figlio da crescere con equilibrio come afferma uno di loro: “Nel mio lavoro precedente non riuscivo a soddisfare il bisogno di innamorarmi di un “figlio”, ovvero l’azienda, e quindi, con varie difficoltà – perché la percezione del fallimento e il mito del posto fisso in Italia ci vengono inculcati sin da piccoli – ho lasciato un impiego ben retribuito, in un’azienda che poteva portarmi a diventare un bravo manager. Un simile processo di cambiamento è molto doloroso, perché da un lato non si è felici nel proprio lavoro, ma dall’altro non si è certi di cosa ci sia dall’altra parte. La paura del fallimento è però anche salutare, perché porta a far sì che l’imprenditore non lo dimentichi mai, aiutandolo a considerare attentamente i pro e i contro. Quando mi sono licenziato ero molto rilassato, anche se non sapevo cosa avrei fatto poi. Sapevo però che era il momento di rimboccarmi le maniche e ho avuto la fortuna di incontrare il mio socio con il quale ho potuto condividere il peso della mia decisione e in qualche modo ricominciare. Come si dice: “two is meglio che one”.
Trovare una quadratura tra pandemia, spinta alla sostenibilità e risorse finanziarie
Io non so se questa start-up diventerà grande e si quoterà in borsa ma non deve essere necessariamente questo il punto di arrivo. Il vero obiettivo è quello di far convergere risorse esterne su un progetto di sostenibilità in un mondo sconvolto dalla pandemia. Il mio sprone per questi due giovani imprenditori è quello di vincere questa scommessa.