Il Meglio del Piccolo

Quello che fa la differenza

Oggi passerò la mattinata a fare formazione in un’aula particolare composta esclusivamente da neo-imprenditori, start-upper come si usa chiamarli oggi. Penso e lo dichiarerò in apertura che la mia lezione potrebbe non avere molto senso se capirò di trovarmi di fronte a finanzieri. Nulla contro questa categoria ma che senso ha parlare per ore di sviluppo delle persone e di visione di lungo termine se il fine principale è una exit con tanti zeri?

Provo a spiegare meglio il discrimine. Uomo o donna, giovane o maturo, molto o poco scolarizzato, l’imprenditore avvia la sua attività sulla base di un’idea in cui crede fortemente. Sia che parta come fondatore sia che prosegua come successore, sviluppando la formula originaria, non ha in mente innanzitutto di vendere la sua azienda al miglior offerente per ricavare il massimo guadagno. L’imprenditore vero non teorizza dal giorno uno, dalla nascita della sua creatura, di crescere il più in fretta possibile e a qualunque costo, per realizzare milioni di euro con la cessione. Il fine ultimo non è innanzitutto vendere e fare l’affare della vita. E’ creare valore nel tempo sviluppando un prodotto o un servizio o un marchio apprezzato dai clienti, per lasciare un segno nel settore di riferimento e primeggiare rispetto ai concorrenti. L’obiettivo è dar vita e consistenza ad una entità in grado di continuare con successo il più a lungo possibile. Questo ha in testa un imprenditore che può fregiarsi di tale ruolo. Poi, nel corso della vita, dell’azienda e della persona, potranno anche intervenire accadimenti che porteranno alla cessione: la necessità di rafforzarsi entrando a far parte di un gruppo più grande e magari internazionale a causa di specifiche dinamiche di settore o di una crisi contingente, l’avanzare dell’età del titolare in concomitanza con la mancanza di successori dotati della stessa vis imprenditoriale, il desiderio di cedere la propria creatura dopo tanti anni ad un fondo destinando gli utili ad uno scopo di benessere socio-ambientale (come abbiamo letto di recente nel caso del fondatore di Patagonia), un evento traumatico in capo a chi è al comando che impone di passare la proprietà. In tutti questi casi il ruolo dell’imprenditore non viene meno, tale sarà fino alla vendita, garantendo con essa, nel caso in cui la nuova compagine proprietaria sia capace, ulteriore continuità all’impresa. Nessuno smacco al modello imprenditoriale ma solo un necessario/utile cambiamento a livello proprietario.

 

Altro è invece il caso dei soggetti che avviano o assumono la gestione di un’azienda con il preciso scopo di farla crescere, di svilupparne l’immagine e il marchio, per renderla appetibile alla vendita. Aumentarne le dimensioni e la visibilità e, di conseguenza, prestare la massima attenzione a certi indicatori di bilancio, per rientrare al più presto negli standard delle imprese interessanti per i fondi d’investimento o per le società di private equity è il loro obiettivo prioritario fin dall’inizio. Marketing e finanza in questi casi si saldano e la fanno da padroni. Sia che si tratti di una start-up o di un’impresa già esistente il fine “dell’imprenditore” è vendere al miglior offerente (qualunque esso sia) in pochi anni per poi eventualmente ripartire con una ulteriore operazione e così via, passando, senza grosse remore anzi con vanto, da un settore all’altro. Al di là degli strascichi economici ed occupazionali che queste avventure spesso lasciano sul terreno e di quelli personali cui sono esposti alcuni di questi personaggi, il punto dolente, è definire questi attori economici come imprenditori e sentirli declamati dai media come tali. Impariamo a chiamarli con il loro nome. Non è corretto fare confusione. Sono piuttosto dei finanzieri che, in una società di mercato come la nostra, legittimamente, fanno un mestiere differente. Laddove l’imprenditore vive totalmente immedesimato con la propria impresa, spesso l’unica nella vita, creando ricchezza per sé e per gli altri, il finanziere compra e vende, senza conoscere a fondo necessariamente l’oggetto trattato, mai le persone coinvolte, le loro storie. Il finanziere non si identifica con l’azienda anche perché ciò gli toglierebbe la freddezza necessaria per spossessarsene. Nulla di scandaloso, solo strutturalmente diverso in tutto. Non stupitevi allora se in questo blog finalizzato al sostegno delle PMI familiari italiane non verrà dedicato spazio alle operazioni di start-upper che partono teorizzando subito in fase di avvio di vendere appena sarà conveniente o di sedicenti imprenditori che, dal loro subentro in avanti, hanno solo in mente di cedere la società per il proprio tornaconto economico. Sono, purtroppo o per fortuna, di parte. Sto con chi considera l’impresa come un figlio da far crescere con equilibrio, da rendere forte e indipendente, in grado di cogliere i momenti buoni e di fronteggiare le fasi discendenti della vita. Non dalla parte di chi tratta l’azienda come un tacchino da ingrassare a suon di ormoni per venderlo al miglior offerente che potrebbe anche metterlo in forno per farne bocconi.

 

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