Il Meglio del Piccolo

SOS PMI

La mail che ho ricevuto è intitolata SOS PMI e descrive perfettamente il disagio del figlio che percepisce l’organizzazione dell’azienda paterna troppo personalizzata e dunque bisognosa di un intervento, di metodi e strumenti manageriali per cogliere tutte le opportunità che il mercato sembra offrire. Ecco il testo:

 

Buongiorno Prof. Puricelli, 

 

Spero che questa email la trovi bene.  

Mi chiamo Mario Rossi, e sono un suo ex-alunno del corso di organizzazione aziendale.

L’ultima volta che ci siamo incontrati di persona è stato a Maggio 2018, durante una conferenza che ha tenuto nella mia città. 

 

Conclusosi il capitolo Bocconi, ho continuato a seguire su LinkedIn i suoi post e articoli che pubblica sul sito della SDA. Sono contento di vedere che stia continuando a fare ciò che fa con la stessa passione ed energia che metteva in classe. 

 

Recentemente, dopo ad aver letto un suo articolo sulla delega, e dopo l’ennesima lamentela arrivatami (io infatti, sono in questo momento a lavorare all'estero) in merito al funzionamento dell’impresa di famiglia, mi sono deciso a scriverle sperando di trovare in lei un buon parere o guida per fare luce su come fare il salto di qualità: 

 

L'azienda della mia famiglia è locata in provincia e opera in un settore ad alto contenuto di artigianalità.

La vendita dei prodotti avviene attraverso due canali: GDO e vendita diretta con due negozi. Per lo più, il fatturato proviene dalla vendita alla GDO. Questi i numeri: + 3 MLN di fatturato; + 30 dipendenti; +100 supermercati serviti.  

 

Ritornando con la mente alla matrice che spiegò in classe, la situazione in cui verte l’azienda è quella dell’imprenditore, in questo caso mio babbo, con la croce sulle spalle e che si occupa di gestire tutto (acquisti, vendite, produzione, gestione magazzino...).

A ciò si aggiungono i “litigi” giornalieri tra familiari, su come debbano essere svolte alcune mansioni, sulla qualità del lavoro svolto e così via (immagino che conosca molto bene le dinamiche a cui mi riferisco). 

 

La situazione corrente non credo possa ulteriormente aspettare quelle che sono le tempistiche che mi ero prefissato prima di rientrare in Italia, ed è per questo motivo che ho pensato di scriverle.

 

Credo che ci serva urgentemente un cambio di passo, che porti ad una maggiore managerializzazione dell’impresa (ora come ora decide tutto mio babbo su tutti gli aspetti che riguardano l’impresa), slegando quindi mio babbo da tutte quelle mansioni che possono essere delegate, e lasciandogli più tempo per dedicarsi alla strategia, alla direzione da far prendere all’impresa che, fino ad ora, a mio parere, è stata un po' troppo ignorata. 

Spero di non essermi dilungato troppo. Naturalmente ci sono tanti altri dettagli che per motivi di brevità ho lasciato fuori, ma che sarò più che lieto di approfondire qualora volesse farlo.

Mi chiedevo se fosse tanto gentile da potermi dare un suo parere in merito. 

La ringrazio in anticipo anche solo per essersi presa il tempo di leggere la email.

Un caro saluto,

Mario Rossi

Cosa consigliare a questo giovane che invoca un doveroso cambio di passo nella piccola impresa di famiglia?

La risposta più ovvia sarebbe stata quella di dirgli di tornare in fretta, data l’emergenza, di rimboccarsi le maniche e attuare quel processo di managerializzazione che lui coglie benissimo (avendolo studiato e praticato) e vede così carente nell’azienda del babbo.

Prima di arrivare alla conclusione ho preferito però parlargli e approfondire il caso.

Ho trovato un giovane serio, indubbiamente serio ma molto molto confuso. Confuso tra le tante alternative che oggi un ragazzo di 25 anni, capace e laureato in una buona università, può avere dinnanzi: bloccato,  paradossalmente, dal privilegio della scelta, dal timore di non massimizzare l’esito della decisione e di rinunciare a qualcosa. Nella sua testa c’erano almeno tre opzioni che andavano innanzitutto enucleate. La prima: restare all’estero e proseguire in una brillante carriera manageriale passando da una multinazionale ad un'altra o ancor meglio entrando in una società di consulenza che teoricamente permette di vedere più settori e realtà diverse in poco tempo. La seconda: avviare una sua impresa in un ambito ancora tutto da definire avendo le skills manageriali per gestire il nuovo business. La terza: tornare al piccolo paese di provincia, ove famiglia e impresa sono basate, e iniziare un faticoso passaggio generazionale per aiutare/spingere il padre a passare da un modello da “uomo solo al comando” ad un assetto manageriale.

 

Ho cercato di esaminarle con lui in dettaglio facendo emergere le criticità a partire dall’ultima. A 25 anni, guardata dalla visuale di una metropoli europea e del pensiero prevalente, la piccola impresa manifatturiera di famiglia appare piena di vincoli: la vita di provincia, il sacrificio fisico legato alle attività ad alto contenuto di lavoro manuale, la chiusura delle maestranze e della loro mentalità, la ripetitività degli incontri, la mancanza di cambiamenti, lo scarso potenziale innovativo, un guadagno relativamente ridotto rispetto alle remunerazioni estere e costi fiscali molto alti. Tornare lì gli appare come un matrimonio forzato con una ragazza di paese, senz’altro fedele ma parecchio bruttina, del tutto priva di appeal. Difficile valorizzare questa strada ai suoi occhi se non facendo emergere la certezza di perdere di vista una cosa di famiglia. La seconda scelta, quella di avviare una start-up, è molto più poetica ma la poesia decade quando il ragazzo, che al momento non ha alcuna idea di quale business intraprendere, mi chiede di indicargli un percorso per fare impresa credendo ingenuamente che possa esistere un tragitto standardizzato per diventare un imprenditore di successo. Mi basta poco per far cadere questa alternativa: un vero imprenditore si getta a capofitto senza aspettare di avere consigli da un professore universitario. La prima opzione, non perfetta in assoluto, resta la più sexy: vivere in una grande città globale, lavorare in un contesto popolato da profili professionali altamente scolarizzati, percepire stipendi improponibili nella piccola provincia italiana, essere esposto di continuo a nuovi stimoli e culture: non più il connubio combinato con la bruttina di paese ma una serie di flirt che si susseguono con partner molto più attraenti. Il paese dei balocchi verso la triste routine scolastica e la falegnameria di mastro Geppetto. Poco importa se già si intuisce che il lavoro nella multinazionale è assai ripetitivo e per certi versi banale: la seduzione dell’ambiente internazionale è più forte.

 

Ora pensate a quel povero babbo che ha fatto mille sacrifici per consentire al figlio un percorso di studi inimmaginabile ai suoi tempi che, invece di preparare il giovane a rientrare in azienda e a supportarlo, lo allontana ulteriormente. Pensate anche l’imbarazzo di trovarsi un figlio giudicante - lucidissimo nell’esaminare teoricamente le manchevolezze dell’assetto organizzativo costruito dal padre - che però, al fondo, non ne vuole sapere di tornare per dare una mano ipotizzando, con l’ingenuità di un ragazzo di 25 anni, di delegare la soluzione a dei consulenti esterni o ad un amministratore interno (come se fosse immediato trovarlo e fosse facile nel caso la convivenza con il fondatore).

 

E allora come continuare?

 

Provare a farlo ragionare, convincerlo di quanto possa valere la pena tornare a lavorare nella piccola impresa di famiglia per guidarla un domani, sostenere il valore della provincia italiana, spiegargli che i soldi non sono tutto e tante altre cose fondamentali della vita? Può essere una buona strategia?

 

Temo sarebbe un pessimo approccio che potrebbe portare addirittura ad aumentare la seduzione di una carriera internazionale. Se infatti, a furia di pressioni, il ragazzo tornasse, avrebbe sempre il dubbio di aver lasciato una vita di flirt memorabili con fanciulle meravigliose in cambio di un matrimonio - al fondo forzato - con la racchia del paesello. No, non avrebbe proprio senso. Il giovane deve stare all’estero, seguire l’incanto delle multinazionali o delle grandi società di consulenza, dell’internazionalizzazione. Se l’incanto resterà tale, la confusione del giovane di oggi sarà risolta e il babbo dovrà gestire, come molti imprenditori, il problema della mancanza del successore: vendere del tutto la società quando non ce la farà più o provare a cercarsi un socio giovane non familiare in grado di proseguire al suo posto. Se, invece, all’infatuazione dovesse subentrare, dopo qualche anno (idealmente due o tre) il disincanto, ecco allora che la soluzione si troverebbe. Il ritorno del ragazzo sarebbe sensato, maturo, frutto di un’esperienza e di una crescita personale e non di un obbligo più o meno esplicito. Pronto, in quel caso, il padre ad accogliere “il figliol prodigo” che, a quel punto, sarà portatore di una visione diversa dalla sua, sapendo che, proprio attraverso quel confronto, che in certi momenti sarà di sicuro faticoso, si porranno le basi per la continuità dell’azienda di famiglia.

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