
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 15 Mag 2025
- 4,5 giorni
- Class
- Italiano
Acquisire modelli di lettura e analisi del cambiamento in azienda e proporre metodologie di intervento per trasformare le visioni strategiche in risultati concreti.
Carissimi imprenditori, lo spunto di oggi mi viene dall’ascolto di una intervista a Davide Rampello, past president della Triennale di Milano e curatore di molti progetti ed eventi culturali.
Si tratta di una conversazione di circa un’ora in cui si ricostruiscono le origini del genio italiano. ("Come nasce il genio italiano" su Youtube)
Cosa c’entra questo intervento con la piccola impresa?
Molto moltissimo. Vi spiego perché. Da anni sostengo l’esistenza di un modello originale del fare impresa in Italia che è caratterizzato da quattro peculiarità, piccola dimensione, guida imprenditoriale, proprietà familiare e vocazione manifatturiera. L’aspetto particolarmente interessante che viene spiegato benissimo nella video intervista - arrivo già alle conclusioni - è che questo modello (diffuso in modo standard da nord a sud nel nostro Paese) ha delle origini antiche, discende dalla nostra storia e, così osservato, rivela delle radici fortissime. Altro che essere un incidente di percorso o qualcosa da correggere scimmiottando formule economiche di capitalismi stranieri.
Provo a sintetizzare i passaggi chiave, quelli centrali da cui viene il nostro modo tutto speciale di fare impresa.
In principio ci fu l’impero romano. I maestri del saper fare, quelli con una spiccata vocazione manifatturiera potremmo dire con il linguaggio di oggi, furono loro. Strade, ponti acquedotti e armamenti furono causa ed effetto al tempo stesso della mirabolante crescita e delle conquiste territoriali delle legioni romane. Se volessimo usare un parallelo con l’azienda: l’impero si espanse, da regionale divenne nazionale per poi superare i confini italici. Si struttura quindi - si managerializza diremmo noi - perché solo così può governare la sua crescita. L’ambizione è tanta e l’impero si allarga a dismisura rispetto ai parametri dell’epoca ma sarà proprio l’eccesso a determinarne la caduta. Nella periferia dell’impero si generano spinte anarchiche o indipendentiste, i nemici premono sui confini e il centro si indebolisce per l’emergere di conflitti di potere intestini. In estrema sintesi la grande dimensione fallisce e l’impero cade. Sarà sulle sue ceneri, nell’Italia pericolosamente minacciata dai barbari, che circa dalla metà del 500 d.c., il geniale Benedetto da Norcia determina, attraverso l’istituzione dei monasteri e del suo ordine religioso, la rinascita della nostra civiltà. Declinata la grande dimensione, il sapere far della cultura greca e romana si canalizza dentro i microcosmi dei conventi guidati dagli abati. E’ li che - con la semplice ma efficace regola dell’ora et labora - si studia, si fa ricerca (applicata) e si produce in tutti i campi: dall’ agronomia, all’allevamento, alla medicina alla stampa. Proprio come in una micro impresa gestita dal titolare che è al contempo imprenditore e manager. Dal convento al comune il passo è breve. Esattamente all’interno dei borghi delle città-stato nascono le prime corporazioni delle arti e dei mestieri che riuniscono le botteghe artigiane dove la tradizione del saper fare raggiunge livelli di qualità altissima. Qui si sviluppa la specializzazione e il “senso del tutto”: quell’approfondimento di conoscenze e di tecniche produttive che arriva a denotare un territorio, la sua unicità e le sue competenze distintive. Dal Medioevo al Rinascimento, la maestria artigianale si tramanda e si migliora attraverso la formazione ma anche mediante una crescente forma di competizione tra le diverse aree territoriali che cercano di accaparrarsi gli artisti e i mastri artigiani più geniali. Localismo, piccole comunità produttive, qualità dirompente, varietà, saperi trasmessi tra le generazioni dentro e fuori dalla famiglia: ingredienti che ricorrono nella nostra storia dal crollo dell’impero romano in avanti, fino a quando non si torna, in alcune precise fasi storiche, al mito della grande dimensione, delle economie di scala, della standardizzazione. Dalla rivoluzione industriale ottocentesca fino agli anni del dopoguerra, si manifesta il tentativo di costruire un modello di capitalismo di stampo fordista basato su imprese gigantesche e strutturate, orientate più alla minimizzazione dei costi che non alla massimizzazione della qualità. Anche questa volta però l’ideale della grande impresa - come accadde con il declino dell’impero romano - non regge, non tiene completamente nello scontro con la realtà.
Le crisi dei primi anni ‘70 portano alla frantumazione di molti dei colossi a capitale pubblico e privato e alla nascita, spesso per uscita dalle grandi, di micro imprese (anche incentivate dallo Statuto dei lavoratori che dispensava dalla presenza del sindacato le aziende sotto i 15 dipendenti). Ancora una volta la periferia vince sul centro e mentre a Roma, negli ambienti dove si faceva politica industriale, si dichiarava un modello economico di un certo tipo, nei piccoli comuni della provincia italiana se ne realizzava un’altro. Teoria e pratica, annunci e fatti divergono. Dagli anni ‘80 in avanti, si assiste, superate le pericolose fasi del terzismo puro (quando eravamo noi i cinesi d'Europa) e della chimera della delocalizzazione (quando si teorizzava che non vi fosse più margine per mantenere le produzioni in Italia), al fiorire di aziende eccellenti di piccola dimensione, imprenditoriali e di proprietà familiare che ripropongono, riveduta e corretta, quella vocazione manifatturiera che era stata coltivata all’interno delle abbazie benedettine, nelle botteghe e nelle corti rinascimentali.
Capire la forza di questa eredità che ci porta ad essere oggi tra le prime dieci potenze globali, ripercorrendone il suo corso, è fondamentale per guardare all’avvenire del modello della PMI con ancor più convinzione. Non è solo passato ma anche futuro. Nessuna economia al mondo potrà in breve tempo riprodurre in modo autentico questo nostro sistema che è al tempo stesso storia e cultura di un popolo. Abbiamo - se lo capissimo e lo sfruttassimo bene - un vantaggio competitivo importante basato su radici stratificate in 1500 anni….
A cosa serve avere radici profonde?
Come la botanica insegna, serve a trovare risorse dove altri non riescono ad arrivare, riducendo così la competizione con specie antagoniste per meglio garantire la propria sopravvivenza.
Non perdiamo dunque la memoria. Non conviene.