Il Meglio del Piccolo

Essere o non essere italiani?

Cari lettori,

oggi vi proponiamo una ulteriore riflessione sulla direzione che una piccola impresa dovrebbe prendere, a maggior ragione in questa fase di ri-partenza. Vi chiediamo, per cominciare, di dedicare un minuto alla visione del bellissimo spot di Tavernello. Come scoprirete dietro a questo noto marchio, c’è Caviro, la cantina più grande d’Italia che raccoglie ben 728.000 tonnellate di uva da circa 13.000 viticoltori e le lavora in 30 siti sparsi in 7 regioni italiane.

 

In contemporanea vi segnaliamo il caso di Martin Foradori Hofstätter, titolare a Termeno di una cantina, con vigneti dislocati sui due versanti dell’Adige che utilizza solo vitigni per tradizione legati al territorio. E’ di questa settimana la notizia, ripresa da giornali e telegiornali, della decisione di questo imprenditore di noleggiare un jet privato per far arrivare in Italia un gruppo di una decina di collaboratrici dalla Romania. L’investimento si è reso necessario perché le lavoranti, causa restrizioni da emergenza sanitaria, erano bloccate al confine ungherese. Per Martin Foradori, le loro competenze specifiche e la loro esperienza nelle potature “a verde” hanno un impatto talmente importante sull’andamento dell’annata in corso ma anche sulla prossima potatura invernale, da valere certamente di più del costo pure alto di un trasferimento su un aereo privato. L’alternativa di risparmiare rivolgendosi a manodopera non qualificata e non specializzata non è stata considerata perché non coerente con la qualità che si vuole ottenere, qualità che passa anche dalla maestria che queste signore rumene hanno dimostrato di possedere di stagione in stagione.

 

 

Eccoci al dunque. Cosa c’entra Tavernello con Hofstätter? Ma, soprattutto, cosa potete ricavare dal parallelo tra questi casi? Quattro sono i punti che vogliamo porre alla vostra attenzione.

Primo punto. Esistono molti modi per fare impresa (addirittura nello stesso settore) e possono essere tutti ugualmente validi. Tutti hanno diritto di cittadinanza purché riescano, in un orizzonte di medio lungo termine, a generare profitti e a remunerare dignitosamente coloro che vi hanno collaborato, dai dipendenti ai fornitori per citare i primi della lista.  Il banco di prova sarà il mercato e i risultati che negli anni - non solo al primo colpo - si riusciranno ad ottenere. Da questo punto di vista, la cooperativa Caviro, che non possiede direttamente i terreni, che raccoglie uva da tutta Italia, senza prediligere un terroir specifico, che ha la capacità di pagare campagne pubblicitarie importanti ingaggiando agenzie di prima classe e che, grazie a questa massiccia comunicazione, vende il suo vino, non certo riconosciuto come il top di gamma, nei supermercati, sta dimostrando di riuscire a sopravvivere bene sui mercati pur essendo l’esatto opposto di Hofstätter. Qui i terreni sono di proprietà della famiglia da quattro generazioni, i vitigni sono legati alla tradizione di quel territorio specifico, la comunicazione si basa sulla reputazione costruita col passaparola tra appassionati di vino che gli riconoscono il valore di un prodotto di altissima qualità, una qualità senza compromessi anche a costo di pagare un volo su un jet privato alle proprie maestranze pur di averle presenti per la stagione.

Due modi di fare impresa completamente differenti ma entrambi fin qui, alla prova dei fatti, ben funzionanti.

 

Secondo punto. Quale modello privilegiare in Italia? Se ci venisse chiesto un parere su quale tra i due modi consigliare ad un giovane che volesse iniziare a produrre vino nel nostro Paese, non avremmo dubbi. E voi? Senza pretendere di giudicare i buoni e i cattivi, non spetta a noi e non vogliamo farlo, siamo convinti che il modello da seguire per chi deve partire e vuole avere una maggiore probabilità di successo, nel vino ma anche in molti altri settori, è quello di Hofstätter e non di Tavernello. Perché? Perché il modello scelto dall’imprenditore atesino è quello che storicamente e culturalmente ci appartiene, fa parte del nostro DNA, di noi italiani che abbiamo avuto il monachesimo e il Rinascimento . E’ anche quello statisticamente più diffuso e, dulcis in fundo, è quello che il mondo chiede alle imprese italiane. Qualità, originalità, varietà, unicità ai massimi livelli: questo ci viene domandato, non mediocrità e standardizzazione. Quindi a chi deve ancora partire, avendo almeno potenzialmente le capacità, ci sentiamo di dire che, scegliendo di fare impresa in Italia, sia più logico e più conveniente seguire la strategia alla Hofstätter piuttosto che il modello Tavernello. Per forzare il ragionamento usciamo dal vino per un attimo.  Se viveste in Etiopia e foste i genitori di un ragazzino che mostra una capacità sportiva sopra la media, non avendo lui ancora deciso che sport fare, verso quale disciplina lo orientereste? Verso la corsa per diventare un maratoneta o verso il tennis? A parità di talento in quale ambito avrà più probabilità di successo? Nello sport nazionale di quel paese o in una disciplina pressoché sconosciuta dove non vi è alcuna tradizione locale? Vogliamo, da genitori di quel ragazzino, essere realisti o passare i prossimi dieci anni di vita a sognare di avere un Nadal etiope?

 

Terzo. La piccola dimensione come esito di una strategia fondata sulla qualità. Il modo di fare impresa all’italiana (aggettivo che qui non è sinonimo di furberia, opportunismo e approssimazione), è connotato da scelte di prodotto, di mercato e di tecnologia che vanno nella direzione della cantina altoatesina e questa tipica strategia, in particolare nel vino ma non solo, si realizza meglio - cioè più facilmente - nella piccola dimensione. Questo è un passaggio chiave: la strategia della qualità trova nelle minori dimensioni la sua scala ideale per esprimersi e manifestarsi al meglio. Allora, per intenderci definitivamente anche sulla questione dimensionale, noi non vogliamo sostenere che piccolo è bello, non siamo per la piccola dimensione fine a sé stessa, non siamo sempre e solo a esaltare i “nanetti”. Piuttosto ci interessa affermare che la piccola dimensione è la conseguenza, è l’esito logico di una idea strategica all’italiana, alla Hofstätter, perché i vitigni di Traminer sono solo lì e sarebbero diversi altrove, sono solo lì e non sono illimitati.

 

Quarto. Le insidie della crescita. Una cantina di questo tipo ha un limite fisiologico: può ampliarsi fino al punto in cui la dimensione non arriva a stravolgere la strategia originaria, facendo venire meno le caratteristiche del prodotto e obbligando ad andare verso un mercato più ampio per coprire i costi crescenti di produzione e di marketing. Potrà raddoppiare ma non riuscirà a trentuplicarsi restando fedele all'idea di partenza. Nulla però vieta di crescere oltre ma occorre avere la consapevolezza che, se non si riesce a resistere alla chimera del successo, nel lungo periodo si cambierà strategia e si tenderà verso qualcosa di diverso, più simile al modello Tavernello. E allora, sempre per farvi ragionare, vi domandiamo se ha senso, partendo da una posizionamento di qualità come quello della cantina alto atesina, muoversi verso l’altro più standard? Nel lungo periodo l’aumento dei ricavi sarà in grado di ripianare la perdita di immagine e di reputazione del vostro marchio? Non abbiamo una risposta certa a queste domande, potrebbe anche valerne la pena, ma in presenza di un dubbio vi invitiamo a fare delle valutazioni prima di buttarvi a capo fitto nella crescita. Probabile è che, se seguirete la strategia di diventare la più grande cantina d’Italia, vi potrebbero ad un certo punto servire risorse di terzi, che non è qualcosa di male in assoluto, ma è la strada che apre la porta alla finanziarizzazione con tutto quello che ne consegue in termini di possibilità di incidere in pieno sulla vostra impresa. Certo è, invece, che se percorrerete la via della crescita, la vostra organizzazione da “piccola impresa” andrà prima o poi in crisi. Piccolo diventerà brutto, anzi bruttissimo. E allora pronti, se andrete per quella via a managerializzare la vostra azienda, ma pronti anche a scontrarvi, subito dopo, con la carenza di manager in un Paese come il nostro. Arrivati a quello stadio non vi potrete lamentare della scarsità di profili manageriali in Italia - “chi è causa del suo mal pianga se stesso….”- altrimenti vi proporremmo di tornare al punto uno e due di questo ragionamento. Di riconsiderare cioè l’idea che, pur esistendo mille modi diversi per fare impresa, tutti legittimi, poteva essere conveniente scegliere quello più adatto al terreno di gioco su cui si è deciso di giocare.

Maratona in Etiopia e calcio in Italia non potrebbe essere più logico?

 

 

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