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Fujifilm: una leadership a 360°

Siamo nel 1934: in Giappone nasce Fujifilm, produce pellicole fotografiche. Fin dagli albori ha nel suo DNA una grande capacità innovativa. Un esempio? È di Fujifilm la prima fotocamera usa-e-getta, la Fujicolor QuickSnap del 1986. Nei primi anni 2000 ha inizio l’era digitale che porta al graduale abbandono della pellicola fotografica. L’azienda sa affrontare la crisi e si afferma tra le prime marche di fotocamere digitali. Non solo. Nel 2010 presenta la prima fotocamera digitale in grado di scattare foto 3D, rivoluzionando letteralmente il settore della fotografia digitale. Emerge così lo spirito “never stop”, tratto distintivo del mindset e modus operandi delle persone di Fujifilm. Il suo assetto di oggi è notevolmente diverso da quello del 2000. Basti pensare che la fotografia, che rappresentava il 54% del business, oggi è ridotta al 13%, lasciando spazio alla produzione di soluzioni per il settore sanitario (48%). È di fatto un’azienda che non ha mai smesso di crescere, attraverso investimenti nella ricerca e sviluppo di nuove applicazioni tecnologiche ma anche attraverso una serie di acquisizioni, che si sono rivelate fondamentali per acquisire il know-how strategico necessario per l’ingresso in nuovi settori. Ad esempio gli investimenti nel settore medicale hanno portato ad innovazioni tecnologiche che poi sono diventate la consuetudine in ambito clinico.  Fujifilm infatti nel 1983 è la prima azienda al mondo a produrre un apparato radiologico digitale. Non solo nell’imaging radiologico, l’interesse dell’azienda spazia in svariati ambiti, nell’Information Technology ad esempio, Fujifilm già nel 1999 propone il primo sistema PACS basato su architettura WEB ed in endoscopia digestiva, iniziando nel 2002 a proporre il proprio endoscopio a doppio pallone fino ad arrivare nel 2020, in piena pandemia, al lancio del primo sistema di intelligenza artificiale di detection e caratterizzazione delle lesioni del colon-retto. Nell'anno fiscale conclusosi a marzo 2021, le vendite sono cresciute di oltre 1,5 volte rispetto al 2001 e l'87% delle vendite totali è derivato da business non legati al settore della fotografia.

- È un’azienda che ha voluto e saputo cambiar pelle - dichiara Davide Campari, General Manager della Divisione Medicale di Fujifilm Italia dal 2010, mentre mi racconta della grande evoluzione di Fujifilm e, parallelamente, la trasformazione del suo stesso ruolo di leader.

Dati alla mano, oggi Fujifilm è una conglomerata leader a livello mondiale.  Ha raggiunto questo risultato attraversando anche periodi di grande crisi e complessità. A livello di leadership cosa ha reso e rende tuttora possibile questo?

 

La costruzione di gruppi di lavoro di successo, che lavorano molto bene insieme. Le persone e il modo in cui collaborano fanno la differenza. Ho sempre creduto nell’importanza della delega e del lavorare con persone che amassero essere proattive e indipendenti nel gestire progetti dalla a alla z. Da parte mia ho sempre cercato di supportare i miei collaboratori nelle loro attività quotidiane, senza mai voler imporre schemi, linee di azione o una visione predeterminata. È bello lasciare spazio, ascoltare, chiedere alle persone di provare a creare idee e progetti da discutere insieme: in Fujifilm, abbiamo persone disponibili e desiderose di mettersi alla prova ogni giorno per trovare soluzioni nuove e rispondere alle esigenze del mercato e dei clienti. Il leader è la figura che, grazie alla sua esperienza e conoscenza di dinamiche e meccanismi aziendali, gioca un ruolo catalizzatore per portare i progetti a compimento. In ambienti complessi, credo che questo approccio sia fondamentale. Altrimenti si sfocia in organizzazioni molto ingessate dove tutto deve essere definito dall’alto al basso, poco flessibili nell’adattarsi ai cambiamenti continui. La delega è la chiave di tutto e non può essere sentita come una minaccia da chi occupa posizioni di leadership. Il leader lungimirante vuole costruire intorno a sé una squadra di successo, un team di persone capaci di moltiplicare il valore e il potenziale del singolo. Durante le riunioni dico sempre: va bene, abbiamo i prodotti migliori, ma ricordatevi che se non avessimo le persone migliori che riescono a valorizzare questi prodotti, non potremmo ottenere risultati eccellenti.

Lavorare seguendo questo approccio, produce risultati non solo in termini di business ma anche a livello di attitudini e comportamenti da parte dei collaboratori. Un esempio lampante di questo è stato durante la pandemia Covid-19, quando, dall’oggi al domani, ci siamo ritrovati con innumerevoli richieste di supporto da parte dei nostri clienti (principalmente dalle strutture ospedaliere). Qui in Fujifilm nessuno si è tirato indietro, tutti hanno continuato a supportare in loco le strutture, e non per un’imposizione ma per senso di appartenenza a una realtà aziendale che ha obiettivi non solo di business ma anche sociali molto chiari.

 

Impatto positivo sul business ma anche sulla società e sul benessere delle persone. Fujifilm sta investendo tanto in questa direzione. Mi può raccontare cosa state facendo nello specifico?

 

Fujifilm vuole davvero posizionarsi come realtà aziendale che si cura del benessere delle persone. Il nostro interesse non è più solo quello di promuovere le nostre soluzioni a potenziali acquirenti. Noi ci rivolgiamo alla comunità e vogliamo essere riconosciuti come brand che supporta e promuove il miglioramento continuo della qualità della vita. Per questo abbiamo dato vita a numerose iniziative, come ad esempio la campagna di sensibilizzazione alla prevenzione del tumore alla mammella che abbiamo avviato nel mese di ottobre, con cui abbiamo voluto sostenere il ritorno delle donne negli ospedali per fare prevenzione, dopo il crollo di adesioni allo screening sperimentato durante la pandemia. Questo nuovo approccio alla comunicazione è ciò che rende Fujifilm Italia un benchmark per Fujifilm in Europa.

 

Dal 2014 il vostro corporate slogan è Value from Innovation. Cosa vuol dire per voi innovare e sperimentare?

 

In Fujifilm innoviamo attraverso la condivisione della conoscenza e un approccio learning by doing. Nuove idee vengono continuamente messe sul tavolo e sperimentate. Questo presuppone una costante apertura all’errore. Ai miei collaboratori dico sempre che io sono il primo a fare errori e pertanto non posso aspettarmi che gli altri non ne facciano. L’errore è una condizione umana. Va identificato e gestito con cura. Bisogna slegare l’errore dal concetto di colpa e punizione. Sono invece da ricercare le ragioni che hanno portato a tale errore. Inoltre, in contesti complessi solitamente l’errore non ha un singolo colpevole. Spesso è il risultato di tante piccole situazioni che avrebbero dovuto essere gestite diversamente. L’obiettivo non è quindi trovare il colpevole: è non ripetere l’errore domani. Fujifilm ha ereditato questa filosofia dalla cultura orientale che punta molto sul sistema: è il gruppo che ottiene il risultato. Quindi anche quando c’è un errore, se ne ricercano le cause a livello di sistema, di flusso e di processo, sempre con l’obiettivo di imparare per il futuro.

 

Delega, fiducia, l’errore come occasione di crescita…tutte dimensioni non propriamente tipiche del tradizionale capo d’azienda. Lei è nato con questo mindset e le competenze che ne derivano, o le ha imparate?

 

Le ho imparate. Sicuramente nei vent’anni di esperienza in azienda ho lavorato molto sul mio carattere, che all’inizio era più diretto e impulsivo, e sul modo di gestire le persone. Ora certamente sono più riflessivo e questo mi permette di guardare alle situazioni con maggior consapevolezza. Inoltre per me ha giocato un grande ruolo il far parte fin da giovane del Rotary: è stata per me una grande scuola che mi ha insegnato fin dai miei 18 anni a lavorare in gruppo, con persone molto diverse, su progetti sfidanti; vi riconosco un importante valore formativo, che ha contribuito alla mia leadership di oggi. In ultimo, mi piace citare un’esperienza che risale ai tempi del liceo. Ho fatto il liceo classico e pertanto non avevo approfondito particolarmente lo studio della matematica. Desideravo però iscrivermi ad economia e quindi ho ritenuto fosse giusto portare matematica alla maturità. Ho dovuto perciò passare gli ultimi mesi prima dell’esame a recuperare quanto non avevo fatto nei quattro anni precedenti. Ogni domenica mattina alle 7 andavo da un professore che mi ha aiutato a prepararmi: mi ripeteva sempre che le menti geniali che hanno popolato il corso della storia si contano sulle dita delle mani, eppure ogni anno vengono assegnati diversi premi Nobel. Voleva insegnarmi che i grandi traguardi molto spesso non derivano da una genialità innata ma dal lavoro che il singolo accetta di fare su di sé, che comincia dal mettersi in discussione, e dal voler imparare a fare bene le cose.

 

A proposito di lavoro su di sé, come fa un general manager a gestire sfera privata o professionale in modo efficace? È come sempre si tende a pensare che per avere successo in un ruolo bisogna sacrificare l’altro?

 

Assolutamente no. Anzi, sono convinto che alcuni aspetti della mia vita privata hanno influenzato positivamente la mia vita professionale e viceversa. Ad esempio, io sono un grande appassionato di sport e proprio negli ultimi dieci anni ho iniziato a dedicare più tempo a questo aspetto. Cerco giornalmente di dedicare un’ora all’attività fisica e per me è fondamentale perché mi dà modo di ricaricarmi fisicamente e allo stesso tempo di dare spazio ai miei pensieri. È infatti il momento in cui spesso riesco a vedere la big picture, o una stessa problematica da prospettive diverse, sia per quanto riguarda la sfera privata che quella professionale.

Inoltre è anche capitato che questa stessa passione personale fosse condivisa all’interno dell’azienda e diventasse l’occasione per rafforzare alcune relazioni in azienda.

La possibilità di ritagliarsi questo tempo è, allo stesso tempo, frutto della relazione fondata su fiducia e delega che ho con i miei collaboratori. Mi fido di loro, non ho bisogno di controllare tutto ed essere onnipresente.

Vivo la vita come un continuum, non sento l’esigenza di erigere barriere tra una sfera e l’altra, separando nettamente vita privata e professionale, perché l’una porta benefici tangibili all’altra e viceversa.

Chiudo l’intervista salutando Davide Campari e ringraziandolo per aver condiviso il dietro le quinte di un’azienda all’avanguardia come Fujifilm e per la figura di leader che impersona. Non è facile né tantomeno scontato lavorare su di sé per fare spazio agli altri. Ma i frutti straordinari di questo approccio ci sono e in Fujifilm si toccano con mano.

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