Davide Reina, SDA Professor di Marketing.
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di Davide Reina, SDA Professor di Marketing.
Nella società in cui viviamo conta di più il coefficiente di utilizzo di un bene. Sopra un certo livello, i beni si acquistano; sotto un certo livello, si "affittano temporaneamente".
L’amministratore delegato di Ford, Mark Fields, ha dichiarato che in futuro una persona su tre vorrà affittare la propria auto ad altri: è la “using & sharing” economy, che avanza inarrestabile in tutto il mondo, Italia compresa. I dati parlano chiaro: nel nostro paese ci sono 260 piattaforme collaborative1 suddivise tra 160 “market places” di scambio e collaborazione, 40 piattaforme di autoproduzione, 60 crowdfunder. Nella sola Milano, ben 43.000 appartamenti sono stati temporaneamente affittati grazie a Airbnb, risolvendo il problema della limitata ricettività alberghiera durante l’EXPO. A livello internazionale, la stessa Airbnb e Uber balzano agli onori della cronaca raggiungendo valutazioni nell’ordine rispettivamente di 10 miliardi di dollari (Airbnb) e 18 miliardi di dollari (Uber).
Le cause di questa crescita esponenziale sono essenzialmente tre.
Primo: la crisi economica che dal 2008 ha impoverito il ceto medio in Europa e negli Stati Uniti.
Secondo: la diffusione rapidissima degli smart phones con connesso servizio di geo-localizzazione.
Terzo: l’ingresso nei mercati di acquisto e consumo di nuove generazioni che non sentono più così forte, come le vecchie generazioni, il bisogno della proprietà dei beni.
La crisi economica ha letteralmente agito da detonatore del fenomeno. Mai come in questo caso vale il detto che “la fame aguzza l’ingegno”: i ceti medi di Europa e Stati Uniti infatti, stretti tra stipendi in diminuzione e maggiore incertezza del posto di lavoro da un lato, l’esigenza di poter comunque continuare a spostarsi in automobile o andare in vacanza, dall’altro, hanno trovato le loro “killer applications” proprio in servizi come Uber (o Car2go, Blablacar, Zipcar, ecc.) ed Airbnb, e li hanno entusiasticamente adottati. Gli smartphones e il servizio di geolocalizzazione, con una diffusione che anche nel nostro paese è ormai ben oltre il 70% della popolazione, sono l’infrastruttura sui cui si appoggia questa nuova economia. Un network che iper-connette i clienti, ovunque e ventiquattrore su ventiquattro, con le aziende della “using and sharing economy”. E un ponte indispensabile tra domanda e offerta che, funzionando secondo la logica del fornire l’informazione necessaria non soltanto “quando”, ma anche “dove” (geo-localizzazione), aumenta enormemente l’accessibilità del bene offerto in utilizzo temporaneo.
Infine: la mancata proprietà di un bene e il suo mero utilizzo non vengono più vissuti dalle nuove generazioni come una “diminutio”, come un’evidenza di povertà o come un comportamento pauperistico. La proprietà dell’automobile a diciotto anni, che in passato era vissuta come il simbolo del passaggio all’età adulta e all’indipendenza, oggi ha in gran parte perduto questo significato. Anzi, il comportamento “furbo” (smart) è proprio quello di chi l’automobile la paga solo quando gli serve e dove gli serve. Sostenendo i costi soltanto per il tempo dell’utilizzo. E il comportamento stupido è quello di chi l’auto la paga 365 giorni l’anno, 24 ore al giorno, quando i 2/3 del tempo la sua macchina è ferma in garage. Per usare una metafora efficace: oggi nessuno acquista più un trapano per fare un buco nel muro una volta l’anno. Sono soldi buttati. Nella società in cui viviamo conta di più il tempo di utilizzo di un bene. O più precisamente, il suo coefficiente di utilizzo. Sopra un certo livello i beni si acquistano. Sotto un certo livello si “affittano temporaneamente”. Ma l’affitto temporaneo di un bene non è una novità. Ad essere nuovi sono la diffusione del fenomeno nella società ed il suo interessare molti più settori che in passato. Con un conseguente salto di scala in termini di valore delle imprese che operano all’interno dell’economia dell’utilizzo da un lato, e la necessità di definire una proposta di valore ideale per i clienti dell’economia dell’utilizzo, dall’altro.
Rispetto a questo ultimo punto, che è poi il cuore dell’articolo, è utile evidenziare alcuni risultati emersi da una ricerca quantitativa2 effettuata su di un campione di 250 individui, a primavera 2015. In primo luogo, le persone sono più disponibili a utilizzare un bene altrui (75%) che a darne in utilizzo uno proprio (67%). La causa del divario null’altro è se non l’umana natura: si preferisce prendere in affitto temporaneo casa altrui, piuttosto che cedere in affitto temporaneo la propria. Detto questo, in entrambi i casi si tratta comunque di una grande maggioranza di persone: l’economia dell’utilizzo è “mainstream” anche in Italia, ormai. E lo è sia per l’offerta che per la domanda di mercato. In secondo luogo: sia per chi si dichiara interessato a prendere in utilizzo un bene, sia per chi si dichiara interessato a cedere in utilizzo un bene, il motivo principale è sempre lo stesso: il denaro. Un risparmio per chi vuole prendere in utilizzo, un guadagno per chi vuole “cedere in utilizzo”.
Quindi: sarà anche vero che il fenomeno dello “using & sharing” oggi è, come si usa dire, “cool”, ma poggia su di una solida ragione economica. In secondo luogo: le aziende che offrono beni o servizi ai clienti secondo la formula dello “using & sharing” sono percepite come più innovative (76% del campione) e più vicine al cliente (52% del campione). In altre parole, la “using & sharing” economy è attributo di modernità e contemporaneità per l’impresa che la offre. In terzo luogo: emerge da parte delle persone un bisogno forte (6.02 in una scala da 1 a 7) di “sicurezza dell’esperienza d’uso”. E questa è una novità: oltre al risparmio in denaro connaturato all’utilizzo e all’accessibilità all’offerta di mercato indotta dagli smart device infatti, le persone vogliono avere la garanzia che il servizio offerto sia sicuro e affidabile. A questo scopo, recensioni ed opinioni degli utenti non sono sufficienti. Per il campione intervistato, una qualche forma di assicurazione (ad esempio, sugli infortuni), durante il tempo di utilizzo del bene, sarebbe necessaria. E il 30% del campione pagherebbe tra i 30 e i 50 euro in base annua, a questo scopo. Infine, il campione si divide in due grandi atteggiamenti di valutazione dell’esperienza di fruizione dei beni in “using & sharing”: l’apprezzamento dei benefici del risparmio, della facilità d’uso e della convivialità indotta dallo sharing da un lato, l’esigenza di maggiori garanzie in termini di sicurezza ed affidabilità (ancora una volta) dall’altro.
In conclusione, se incrociamo le grandi tendenze che attraversano la società contemporanea (bisogno di risparmio, accesso semplice e immediato, cultura della post-proprietà) con le evidenze che emergono dalla ricerca, possiamo definire una proposta di valore ottimale per il cliente delle imprese dello “using & sharing”. Partiamo dall’aspetto più importante: il prodotto o, per meglio dire, il servizio. Va aumentato il grado di sicurezza e affidabilità, e introdotta una forma di assicurazione sui rischi connessi all’utilizzo. Ovviamente, non si possono replicare pedissequamente i pacchetti assicurativi previsti per l’economia della proprietà, ma vanno sviluppati “bit” di assicurazione down-loadabili, utilizzabili temporaneamente e, se necessario, condivisibili attraverso forme di acquisto collettivo. Anche la polizza deve insomma andare verso una formula “using & sharing”. Veniamo a distribuzione e comunicazione: in questo caso l’ottimizzazione è vicina nei paesi maturi, grazie alla diffusione di internet in quelle geografie. Ancora lontana e, dunque con ampi spazi di crescita, in paesi come Cina o India. Infine il prezzo. Rispetto a questa leva, le imprese della “using & sharing” economy hanno ancora grandi margini di miglioramento in termini di capacità di offrire pacchetti di utilizzo tailor-made, e quotati in modo differente in funzione del tipo di cliente. Infatti, nella ricerca effettuata è emerso come, per fare un esempio, circa il 25% del campione pagherebbe fino a 100 euro l’anno per avere forme di garanzia e sicurezza aggiuntive. Così come invece, per un altro 20% contano molto di più la convivialità e i servizi peer-to-peer. In poche parole, i clienti dell’economia dell’utilizzo non sono tutti uguali, ma hanno esigenze diverse. Di conseguenza, una proposta di valore differenziata in funzione di clusters di clienti potrebbe essere il modo per migliorare ulteriormente l’attrattività per gli utenti da parte dei leader di mercato come Uber o Airbnb. Oppure la leva che nuovi players potrebbero impiegare per aggredirli.
SDA Bocconi School of Management
¹Corriere della Sera, giugno 2015.
²Tesi di ricerca, Università Bocconi, gennaio 2015.