Boeri: un welfare onesto come antidoto al populismo

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Milano, 13 maggio 2019
Non fa distinzioni geografiche, si sviluppa sia nelle democrazie giovani che in quelle mature, nei mercati emergenti come nelle economie avanzate. Per molti è una soluzione alla crisi della politica e delle istituzioni, per altri un rimedio peggiore del male. Il populismo, fenomeno politico emergente sulla scena internazionale, è stato il tema dell’incontro con Tito Boeri, economista ed ex presidente dell’INPS, per il Full-Time MBA. E il pubblico non ci ha messo molto a capire quale fosse il suo punto di vista.

 

È la risposta sbagliata a domande giuste: le esperienze di governo delle forze populiste non hanno prodotto miglioramenti né sociali né economici”. Boeri è tranchant, ma perché il suo non sembri un giudizio epidermico lo sostiene con un solido apparato di evidenze statistiche e studi qualificati. “Il populismo è una thin-centered ideology”, afferma, citando il politologo olandese Cas Mudde, “che divide la società in due blocchi omogenei e antagonisti: il popolo e l’élite, quest’ultima corrotta per definizione”. Il politico deve diventare quindi “l’espressione della volonté générale del popolo”. In questa rappresentazione, le istituzioni e i corpi intermedi di controllo perdono spessore in nome della democrazia diretta, viene superata la tradizionale distinzione destra-sinistra e il populismo si accredita come unico legittimo oppositore dell’establishment. Un’ideologia “semplificata”, appunto, adatta alla società post-ideologica.

 

Ma la vera domanda è: da cosa nasce il populismo? Qui la questione si fa più complessa. Secondo Boeri, alla base del fenomeno attuale c’è una “scary trilogy” composta dalla globalizzazione (“ci sono autorevoli studi che individuano una correlazione negli Usa tra il massiccio import dalla Cina e il voto per Trump”), dall’immigrazione (“anche in questo caso i due fenomeni sono collegati: nelle aree a maggiore immigrazione cresce il voto per le forze populiste”) e dalla crisi economica.

 

Ma correlazione non significa causalità: il populismo – precisa Boeri – non è la “conseguenza naturale” delle tre condizioni. La storia ce lo insegna: “non siamo di fronte a fenomeni senza precedenti: la ‘globalizzazione’ è iniziata nella seconda metà dell’800 con i nuovi mezzi di comunicazione (nave a vapore, treno, telegrafo), le migrazioni del primo ’900 furono bibliche rispetto quelle odierne (la forza lavoro aumentò del 24% negli Usa, del 48% in Canada e dell’83% in Argentina) e la recessione del 2008 ha il famoso precedente storico della crisi del ’29. Ma in tutti quei casi non ci fu una diffusione dei populismi”.

 

Proprio la storia e la statistica possono darci la soluzione. Richiamandosi al titolo del suo intervento “Populismo e Welfare State”, Boeri ipotizza soluzioni alternative al populismo partendo dai precedenti storici e dalla lettura dei numeri attuali. “Negli anni ’30 il New Deal e il welfare state furono la risposta all’insicurezza economica della popolazione. Invece di chiudere le frontiere, crebbero gli investimenti sociali. Oggi le indagini ci dicono che la prima causa della percezione negativa dell’immigrazione è l’impatto sulla spesa pubblica e sulla pressione fiscale. Ma le percezioni sono smentite dai dati reali: nel 2017 le prestazioni previdenziali totali dell’INPS hanno sfiorato i 300 miliardi di euro a fronte di poco più di 210 miliardi di entrate, con un disavanzo di quasi 89 miliardi. Ma nel rapporto prestazioni/contributi relativi ai contribuenti stranieri si registra un surplus oltre 7 miliardi”. Sono dati da cui partire per (ri)costruire la convivenza sociale.

 

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