Sotto la lente

Come liberare lo smartworking dal dibattito ideologico

La pandemia da Covid-19 ci ha catapultato in un enorme esperimento relativo al lavoro: ci siamo improvvisamente ritrovati a operare in modalità «smart», senza i tradizionali vincoli di tempo (l‘«orario lavorativo fissato») e di luogo (gli uffici, le fabbriche ecc.). È stato un esperimento a cui siamo arrivati senza preparazione e che ha coinvolto moltissime persone, indipendentemente dal lavoro che svolgevano e dal tipo di impresa in cui operavano. In sostanza, abbiamo trasferito il lavoro nelle case, senza avere il tempo di riprogettare né le modalità di svolgimento di questo né le modalità di coordinamento con gli altri lavori.

 

I dati danno ben evidenza dell’eccezionalità dell’esperimento. Prima della pandemia i lavoratori in modalità agile sono sempre stati una minoranza: per Eurostat nel 2019 erano il 3,6 per cento in Italia e il 5,2 per cento in media nell’Unione Europea, con picchi del 13-14 per cento in alcuni Paesi Nordici. Con la pandemia i numeri sono cresciuti all’improvviso ed esponenzialmente: i dati Istat mostrano che in Italia il picco di intensità è stato raggiunto durante i mesi di lockdown nazionale di marzo-aprile 2020, con circa il 47 per cento dei dipendenti in modalità agile; nei periodi successivi, la quota dei lavoratori che operano da remoto si è ridotta, ma assestandosi su livelli molto superiori a quelli pre-pandemici (intorno al 30 per cento dei dipendenti).

 

Adesso che le condizioni si fanno via via meno eccezionali, la domanda che in molti si fanno è in che modo e in che misura lo smart working è destinato a rimanere nelle quotidianità di milioni di persone. Per provare a rispondere seriamente a questa domanda, però, è necessario superare il dibattito ideologico degli ultimi mesi in cui si sono contrapposte due tribù: da un lato, quelli per cui lo smart working «fa bene sempre e a tutti e in ufficio non torneremo mai più»; dall’altro, quelli per cui «fa male e dobbiamo ritornare in ufficio al più presto, tutti insieme e tutti i giorni».

 

Lo smartworking debitamente liberato da battaglie ideologiche può diventare uno strumento di crescita manageriale per le imprese. Per farlo, dobbiamo in primo luogo partire dal nome che abbiamo dato a questa modalità di lavoro, che la legge 81/2017 definisce «agile» – ma che è subito divenuto «smart». E dietro questa scelta c’è stata tutta la nostra umana aspirazione per una modalità di lavoro migliore, qualcuno dice addirittura «socialmente desiderabile». Purtroppo, però, non basta un’etichetta per far diventare «intelligente» un lavoro.

 

È importante oggi rimarcare che il fatto che questa, come ogni altra modalità di lavoro, produca o meno risultati positivi dipende dal modo in cui noi la progettiamo. La diffusione estemporanea di questa modalità di lavoro non può magicamente generare effetti positivi né per il lavoratore né per l’impresa. Dobbiamo avere consapevolezza che la messa in discussione dei vincoli tradizionali di luogo e di orario per il lavoro subordinato ha ripercussioni enormi sia sulla vita delle imprese sia delle persone. E queste ripercussioni vanno gestite con conoscenze e strumenti manageriali evoluti, che esistono e devono essere utilizzati.

 

In primo luogo, l’efficacia del lavoro agile dipende dalle caratteristiche del lavoro. Decenni di studi organizzativi ci hanno insegnato che i lavori possono essere differenziati sulla base di moltissime caratteristiche (il grado di discrezionalità, la varietà dei compiti, il grado di specializzazione, il grado di interdipendenza con altri lavori ecc.). Questo significa che non ha senso immaginare una diffusione a pioggia dello smartworking in impresa, ma che è necessario analizzare le caratteristiche dei lavori e tornare a fare job design. Solo analizzandone le caratteristiche possiamo costruire indicatori di prontezza (readiness) sulla base dei quali scegliere l‘intensità con cui introdurre la modalità agile.

 

In secondo luogo, sappiamo che la gestione del lavoro agile mette in discussioni alcune modalità di divisione, di controllo e di coordinamento del lavoro. Ma esistono tipi differenziati di meccanismi organizzativi e possiamo scegliere quelli in grado di compensare meglio la perdita del vincolo di tempo e di luogo del lavoro. Già dagli anni Settanta si sono introdotti meccanismi per ridurre il coordinamento per prossimità e il controllo per osservazione diretta: alcune imprese lo hanno fatto progettando lavori caratterizzati da alta discrezionalità e bassa interdipendenza e monitorando le prestazioni individuali a fronte dell’attribuzione di obiettivi di risultato ai singoli (management by objectives); altre imprese focalizzandosi sul risultato dei gruppi di lavoro e attivando meccanismi di monitoraggio, valutazione e ricompensa basati sui risultati del gruppo (il gain sharing).

 

Quando introduciamo la modalità agile possiamo dunque scegliere fra modalità diverse di divisione del lavoro e differenti forme di coordinamento, per esempio lavori individualizzati caratterizzati da obiettivi molto specializzati e elevata discrezionalità oppure lavori il cui risultato è distribuito su un gruppo virtuale semi-autonomo. Possiamo scegliere fra modalità diverse di controllo, per esempio monitorare i comportamenti di contribuzione da remoto oppure monitorare i risultati individuali o, ancora, monitorare i risultati di un gruppo virtuale. Possiamo infine scegliere fra modalità diverse di coordinamento che, nel rispetto del diritto alla disconnessione, definiscano tempi e strumenti affinché il risultato di impresa non sia mera somma di risultati individuali. Ma, se ci riferiamo al lavoro subordinato (come specificato dalla legge), non possiamo fare a meno di utilizzare strumenti manageriali per dividere il lavoro, per coordinarlo e per monitorarne i risultati.

 

Abbiamo la conoscenza e gli strumenti organizzativi per valorizzare la modalità agile e farne un’occasione per costruire lavori migliori e favorire la crescita manageriale delle imprese a beneficio delle imprese stesse, delle persone e della comunità. Ma per sfruttare questa occasione in molte imprese servono ampi investimenti. Chi sostiene che con l’introduzione del lavoro agile si riducano i costi sta adottando un approccio di brevissimo periodo, immaginando di trasferire il lavoro nelle case così come è sempre stato negli uffici. E questo è un approccio pericoloso che rischia di farci ritrovare con lavori e lavoratori più poveri, più isolati, più ripetitivi e, quindi, meno produttivi. Al contrario, il lavoro agile può trasformarsi in una leva per migliorare la produttività e la qualità del lavoro, ma solo se oggi ne accompagneremo l’introduzione con almeno tre tipi di investimenti.

 

1. Riprogettazione del lavoro e formazione. Per evitare un impoverimento del lavoro, è necessario ricostruire lavori di senso, caratterizzati da varietà dei compiti e da ricchezza di competenze. E per questo motivo è fondamentale occuparsi di job design, ma anche e soprattutto di formazione affinché le persone siano nelle condizioni di svolgere lavori di maggiore qualità ma anche più complessi.

 

2. Riprogettazione dei meccanismi di coordinamento e dei meccanismi di monitoraggio. Soprattutto nelle imprese che hanno fatto leva su forme di coordinamento tacito e sul connesso monitoraggio dei comportamenti, il rischio è quello di sostituire il monitoraggio dei comportamenti con un monitoraggio su risultati individuali iper-specializzati e di brevissimo periodo arrivando inevitabilmente a «cottimizzare» il lavoro subordinato. È necessario, invece, ampliare e ibridare le tipologie di meccanismi in uso per adattarle non solo a tipi di lavori differenziati, ma anche a modalità differenziate per lo stesso lavoro che in alcuni momenti potrebbe svolgersi prevalentemente in presenza, in altri in remoto e in altri ancora in forma ibrida.

 

3. Riprogettazione degli spazi. Il minor tempo che passeremo nei luoghi tradizionali di lavoro dovrà essere soprattutto tempo per il coordinamento, per lo scambio delle conoscenze, per la formazione e per la socialità. Non dobbiamo dimenticare che le imprese sono anche luoghi di comunità che rispondono a bisogni di affiliazione, sono luoghi dell’apprendimento sociale e della crescita, sono luoghi di costruzione dell’identità professionale e personale. Negli uffici singoli è dunque importante considerare un più forte fabbisogno di spazi per l’incontro, per la condivisione e la cogenerazione delle idee, per la socializzazione delle nuove persone che entrano in impresa.

 

Quelli qui elencati sono investimenti rilevanti non solo dal punto di vista economico. È necessario riconoscere che la cultura e la padronanza delle tecnicalità organizzative utili per poter affrontare questi investimenti non sono ugualmente diffusi in tutte le imprese. E su questo si pone il tema del supporto alle imprese meno managerializzate. È importante che il dibattito sull’introduzione efficace del lavoro agile (come di molti altri strumenti di gestione manageriale) si arricchisca di una riflessione operativa sulle modalità attraverso cui soggetti rigorosi e super partes favoriscano la crescita di managerialità delle imprese. A questo proposito si citano spesso i Fraunhofer tedeschi a supporto della crescita delle imprese in Germania. Ma proprio in questi mesi il governo britannico, con l’aiuto di molte business school, ha varato la campagna Help to grow prevedendo una formazione manageriale diffusa soprattutto rivolta a piccole e medie imprese. Anche nel nostro Paese è il momento di investire in questa direzione.

 

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