Sotto la lente

Manager e crisi geopolitiche: tre leve per resistere

A volte bastano un annuncio o un tweet per gettare il sistema economico globale nell’incertezza. Il 2 aprile, l’annuncio dei dazi di Trump ha dato l’ennesimo colpo a un equilibrio fragile, in un contesto già segnato da una pandemia, conflitti in Ucraina e a Gaza e tensioni geopolitiche.

 

Se nessuno è in grado di prevedere quanto durerà la situazione di incertezza, i manager, per fare fronte al nuovo scenario, dispongono di tre leve.

 

  1. Un nuovo ruolo: il chief political (risk) officer. Il primo aspetto ormai imprescindibile è la gestione del rischio. Non si tratta più solo di monitorare tassi d’interesse e valute: serve una visione più ampia. Ogni azienda oggi dovrebbe dotarsi, di fatto, di una figura che, in tempi recentissimi, è stato definito “chief political officer” o “chief political risk officer.” Si tratta, in ogni caso, di una figura capace interpretare, decifrare e suggerire come affrontare i rischi geopolitici. Se, fino a ieri, un simile ruolo poteva sembrare appannaggio delle grandi imprese, oggi sembra una necessità anche per quelle di medie dimensioni.
  2.  Un nuovo imperativo: crescere. Un concetto essenziale nella gestione del rischio è la diversificazione. Vale per il portafoglio di un investitore e vale per le imprese. Tra le diversificazioni più immediate da comprendere ci sono quella geografica e di prodotto, ma non sono le uniche. Per essere in condizione di diversificare le imprese devono però avere dimensioni adeguate, difficili da raggiungere organicamente. Entrano perciò in gioco le operazioni di M&A, che consentono di utilizzare la liquidità per acquisire altre imprese, rinforzarsi e resistere meglio alle perturbazioni. Raccogliere capitale vi sembra difficile? Probabilmente lo è, ma non dimentichiamoci che viviamo un momento di eccezionale disponibilità di cash. Il cash in circolazione è pari, oggi, al 120% del PIL mondiale. Per le imprese, questa è una grande opportunità e per l’economia mondiale, rispetto al rischio di recessione, può rappresentare un efficace paracadute.
  3.  Un nuovo protagonista: i giovani talenti. Terzo punto: investire nei talenti. Le persone brillanti sono fondamentali. Se assumi i profili giusti, l’inserimento è plug-and-play. E quali sono le caratteristiche “giuste”? Persone agili, umili, curiose, con mentalità aperta. Anche nelle realtà più piccole, avere collaboratori con background e passaporti diversi è un valore. E quando dico piccole realtà, intendo davvero tutti, a partire dal negozio di vicinato. La nuova generazione, soprattutto con un orientamento STEM, ha un vantaggio competitivo: saprà integrare rapidamente l’intelligenza artificiale nei processi tradizionali. Anche se nessuno, oggi, sa davvero come farlo, è nella natura dei giovani la capacità di integrare il nuovo con il tradizionale.

 

Altre strade sembrano più accidentate. Mentre si parla di globalizzazione, torna anche il tema del reshoring. Molti imprenditori esprimono la preoccupazione di non essere più in grado di sapere esattamente dove vengono prodotti i componenti dei loro prodotti. Se questo è vero, non sono neppure in grado di capire quali sconvolgimenti geopolitici possono avere effetti su di loro. Ecco perché riportare parte della produzione vicino casa diventa una tentazione forte. Un certo grado di reshoring potrebbe far recuperare la capacità industriale per “fare le cose”. Ma un reshoring totale non è né possibile, né sano. Servirebbero infrastrutture, fonti di energia e competenze che non si costruiscono in pochi anni. Un ritorno parziale ha senso, ma anche questo è difficile senza politiche industriali serie.

 

Se da un lato il reshoring è comprensibile, dall’altro non può essere la risposta sistemica ai nuovi equilibri globali. L’Europa, ad esempio, ha bisogno di ripensare il proprio modello produttivo non chiudendosi, ma puntando su una maggiore integrazione, semplificazione e scala.

 

Senza scala non si compete. In un mondo dove Stati Uniti e Cina ospitano le aziende più grandi e innovative, l’Europa può restare in partita solo se riesce a far crescere le proprie imprese, trattenere talenti e attrarre investimenti. Ciò non significa rinunciare alla propria struttura fatta di PMI, ma fare in modo che anche queste possano crescere, aggregarsi, internazionalizzarsi. Promuovere una cultura della collaborazione, favorire le fusioni, creare condizioni normative più semplici e omogenee tra Paesi europei è oggi un’urgenza industriale e politica. È un buon segno che la Commissione Europea stia adottando una “Startup and Scaleup Strategy” influenzata dal Rapporto Draghi e dal Rapporto Letta.

 

Per fare fronte a una possibile riduzione delle esportazioni, le imprese europee hanno bisogno di un mercato unico più efficiente e di un ecosistema capace di trasformarle in aziende competitive su scala globale. In questo contesto, la standardizzazione è una sfida ancora aperta: basti pensare che, in Europa, esistono diversi adattatori per ricaricare un telefono o che abbiamo cinque sistemi radar diversi. È un’anomalia che rappresenta bene il paradosso di un’Unione ancora troppo disomogenea per affrontare crisi globali come un vero attore unitario.

 

Anche dal punto di vista finanziario, i segnali non mancano. Le recenti vendite di Treasury bond e dollari mostrano che il panorama monetario internazionale potrebbe avviarsi verso una competizione valutaria più intensa, alimentata anche dalla diffusione di valute digitali. La BCE si prepara al lancio dell’euro digitale, mentre altre banche centrali sono già operative. È un cambiamento che va oltre la tecnologia: ridefinisce il ruolo stesso delle banche centrali e della fiducia nei sistemi.

 

Allo stesso modo, la sostenibilità si libera dall’etichetta di “esercizio di compliance” per diventare il nuovo terreno competitivo. Non perché sia di moda, ma perché è un fatto razionale: scarsità di acqua e cibo, disuguaglianze crescenti e tensioni sociali sono fattori che mettono a rischio i profitti futuri. Chi vorrà continuare a produrre e crescere dovrà contribuire a colmare questi gap. In settori come quello assicurativo, la sostenibilità non è più un’opzione etica, ma uno strumento di mitigazione del rischio.

 

Infine, il fattore demografico è forse il più sottovalutato tra quelli che stanno ridisegnando lo scenario economico. Oggi, la proprietà degli asset è ancora concentrata nelle mani delle generazioni più anziane, ma entro il 2031-2033 la Generazione Z diventerà maggioritaria. E porterà con sé una mentalità completamente diversa: meno legata al possesso, più orientata all’uso, più attenta alla sostenibilità e più fluida nelle aspettative.

 

Questa trasformazione, unita all’introduzione dell’intelligenza artificiale anche in ambiti regolati come gli audit, sta già modificando profondamente il funzionamento delle imprese. Ma la direzione è chiara: non sopravviverà il più forte, ma chi saprà adattarsi meglio, facendo leva su quella che rimane ancora l’intelligenza più preziosa: quella dei talenti.

 

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