Sotto la lente

Il futuro del retail real estate va davvero ripensato?

La crisi sanitaria legata al Covid-19 ha portato alla chiusura di molte attività commerciali e a una forte spinta verso l’e-commerce. Se le conseguenze di breve periodo sono evidenti, sono però anche poco rilevanti, dal momento che gli acquisti nei negozi fisici sono ripartiti rapidamente. Più interessanti potranno essere gli effetti nel medio-lungo periodo: è plausibile l’ipotesi di una crisi sistemica del commercio fisico e, con essa, di una riduzione – più o meno ampia – del valore degli immobili retail?

Tra gli effetti duraturi della crisi, in primis vi è l’improvvisa e massiccia accelerazione del processo di migrazione verso gli acquisti online anche per i consumatori italiani, fino a oggi tra i più refrattari: a fine dicembre 2019 gli acquirenti abituali sull’online erano 700.000 e la quota sugli acquisti retail era del 7 per cento, rispetto al 15 per cento della media europea e al 16 per cento degli USA. A maggio 2020 gli acquirenti hanno superato i 2 milioni.

Non è ancora chiaro se il prolungato distanziamento sociale e la conseguente percezione degli spazi affollati come fattore di rischio individuale, combinati con la crescente adesione al commercio online, possano indurre un diverso equilibrio nel rapporto tra procurement, (cioè l’ottenimento dei beni necessari), e shopping & leisure nell’esperienza ricercata dai consumatori, sottraendo al commercio fisico il suo principale vantaggio competitivo. Alla riapertura i primi segnali sul numero di visitatori dei centri commerciali lasciano pensare il contrario. Tuttavia, gli effetti saranno diversi sul retail basato sul procurement e su quello basato sulla shopping experience.

La funzione degli immobili retail è in continua evoluzione, destinata a variare in parallelo alle variazioni dei modelli di vita e delle preferenze espresse dai loro frequentatori. In particolare, gli spazi appositamente realizzati per il retail da sempre assolvono a una funzione sociale che non è tanto quella del procurement, ma anzitutto dell’experience, cioè l’appagamento di bisogni di ordine superiore attraverso esperienze gratificanti, condivise e ripetibili. L’esempio più evidente della funzione di aggregazione sociale del purpose-built retail, cioè agli immobili dedicati alla vera e completa shopping experience, è quello del centro commerciale.

Oggi il retail è fortemente cambiato, con l’e-commerce considerato inizialmente un canale alternativo al commercio fisico, portando a parlare prima di «multichannel» (canali distributivi alternativi), poi di «omnichannel» (canali distributivi integrati), per arrivare alla conclusione che ormai si debba parlare di «no channel»: non ci sono canali diversi, ma solo diverse modalità di acquisto su un’unica piattaforma dove il retailer – se non vuole diventare irrilevante – deve offrirle tutte e dove il cliente sceglie quella preferita (o le combina).

La pandemia e la conseguente crisi economica stanno quindi solo accelerando cambiamenti già in atto nel retail, ma in misura tale da avere effetti potenzialmente dirompenti sulle diverse tipologie di attività commerciali e quindi sull’attrattività dell’investimento negli immobili che le ospitano.

Il procurement retail è sicuramente quello che meglio può utilizzare la modalità di vendita online, avendo i suoi punti di forza nell’ampiezza dell’assortimento e nella convenienza di prezzo, gli stessi dei pure on-line player. In questo campo, tuttavia, i retailer fisici che sappiano proporre efficacemente la propria offerta anche online non hanno affatto un ruolo secondario, anzi. Diversamente dai pure on-line player, essi dispongono già di un’infrastruttura chiave, la logistica dell’ultimo miglio: hanno già a disposizione una rete di punti di vendita che possono facilmente assolvere anche il ruolo di punti di ritiro o di partenza delle consegne a domicilio degli acquisti fatti online, oltre a essere un eccezionale touchpoint fisico tra il cliente e il prodotto in fase di decisione dell’acquisto.

Non è quindi un caso che nel primo trimestre del 2020 Walmart e Target abbiano avuto un incremento delle vendite online rispettivamente del 74 per cento e del 143 per cento, ben superiori rispetto al pur positivo 29 per cento di Amazon (dati comparabili riferiti al mercato nordamericano). Quindi, i retailer fisici che hanno continuato con il proprio modello, proponendolo con efficacia anche l’opzione dell’online, hanno ottenuto risultati persino migliori di Amazon e, questo, potrebbe anche dipendere dal rapporto diretto e concreto che Walmart e Target hanno con i loro clienti rispetto a quello che si può costruire operando solo sul web. In sintesi, Walmart e Target sono commercianti, mentre Amazon è principalmente una piattaforma logistica.

Inoltre, negli ultimi anni tutti gli operatori mass market del settore grocery, oltre a procedere a una generalizzata riduzione delle dimensioni dei format più grandi, hanno introdotto nuovi format di prossimità ubicati all’interno del tessuto urbano. Altri player, per esempio Mediaworld, stanno sperimentando modelli ibridi di click and mortar di dimensioni contenute e con offerta fisica limitata, dove il cliente con l’infinite store può connettersi anche all’offerta completa, con postazioni di alta qualità e l’aiuto del personale, per informarsi o anche decidere altri acquisti, scegliendo le modalità di acquisto e consegna che preferisce: in questo modo si riesce a creare una shopping experience che supera i limiti dell’offerta fisica senza essere aridamente transazionale come l’acquisto online. L’efficienza e la reattività dimostrati da questa tipologia di retail portano a concludere che non vi siano motivi concreti per temere una crisi sistemica e una perdita di valore degli immobili a essa destinati conseguente l’evento pandemico, anche se l’incertezza sul futuro prossimo è ancora elevata e dipende totalmente da fattori esogeni.

Quanto al purpose-built retail – in particolare i centri commerciali – questi non perderanno né importanza per i clienti, né attrattività per gli investitori se saranno concepiti, progettati e realizzati (o anche trasformati) per proporre un’offerta non limitata all’acquisto, ma estesa ad altre attività a forte contenuto esperienziale, non replicabili online. Non più solo «shop» quindi, ma «eat, shop and play», con un’architettura e un layout che siano in sintonia con la loro natura di luoghi di aggregazione sociale.

Il centro commerciale manterrà quindi un ruolo centrale nel mondo del consumo e del tempo libero se saprà completare l’evoluzione in corso, diventando anche una piattaforma virtuale, oltre che fisica, integrandosi completamente nella rete di relazioni sociali dei suoi frequentatori. Inoltre, è una struttura fisica altamente flessibile, fondamentalmente un contenitore che può essere adattato con relativa facilità a nuove esigenze di utilizzo degli spazi, in funzione dell’evoluzione della domanda. Per farlo, tuttavia, deve essere pensato con una maggior quota di spazi comuni dedicati a una frequentazione non finalizzata al puro acquisto e con più superficie dedicata alla ristorazione, all’entertainment e ai servizi alla persona, e meno al commercio. Sebbene la ricetta possa sembrare semplice, l’applicazione non lo è affatto: sotto il profilo dell’investimento immobiliare significa – a parità di dimensioni – un minor reddito da locazione potenziale, dovendo destinare una maggiore quota al leisure, attività tipicamente meno redditizia.

L’esperienza dei mercati nei quali questa evoluzione è più avanzata sembra peraltro confermare che buona parte di questa minore redditività venga recuperata catturando – grazie all’attrattività del leisure – quote di mercato più elevate, che consentono alle attività commerciali di realizzare vendite superiori e quindi di esprimere canoni di locazione più elevati.

È comunque prevedibile che non tutti i centri commerciali esistenti saranno in grado di adattarsi al nuovo modello evolutivo e che i loro sviluppo dovrà essere realizzato con molta attenzione ai nuovi paradigmi del format, in modo da creare prodotti sufficientemente flessibili per rispondere ai futuri mutamenti. Un’attenta valutazione economica diventa quindi fondamentale per verificarne non tanto la redditività a breve termine, quanto la sostenibilità nel lungo periodo. Quello che sembra di poter comunque escludere è che il modello del purpose-built retail espresso dal centro commerciale – un modello che è sopravvissuto attraverso forme e nomi diversi per più di due millenni, dai tempi dei mercati di Traiano – possa improvvisamente diventare obsoleto.

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