
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 17 sett 2025
- 4,5 giorni
- Class
- Italiano
Apprendere metodi e capacità di intervento organizzativo per adeguare la struttura aziendale alle attuali esigenze di fluidità e flessibilità di assetti e funzioni.
L’attuale amministrazione americana ha trasformato la politica dei dazi commerciali in una leva strutturale di protezione delle industrie ritenute strategiche e imprescindibili per una maggiore indipendenza economica dalle catene del valore globali. All’obiettivo dichiarato di rilanciare la produzione americana si aggiunge tuttavia un effetto collaterale a danno delle economie e delle imprese internazionali che presentano flussi significativi di export verso gli Stati Uniti. L’Italia è tra questi.
Queste misure mettono a rischio i 66 miliardi circa annui di nostre esportazioni e penalizzano l’automotive e tutta l’alta gamma della moda e del design, l’agroalimentare, la meccanica e la meccatronica. E anche se questo aspetto viene sottovalutato, se i volumi di esportazioni calano, ne pagano le conseguenze anche gli operatori della logistica nazionale e nel caso dell’Italia, soprattutto l’economia portuale. Porti come Trieste (1,61 milioni di tonnellate nei primi nove mesi del 2024 partiti verso gli Usa) e Livorno (con 1,01 milioni di tonnellate verso gli USA), ma anche Piombino (931mila tonnellate), Augusta (896mila), Genova (825mila tonnellate), Taranto (754mila tonnellate), Savona (612mila tonnellate), Ravenna (527mila tonnellate), Porto Foxi (418mila tonnellate) e persino Milazzo (con 360mila tonnellate), secondo Conftrasporto, saranno danneggiati.
La reazione dell’Unione Europea, come di altre nazioni, è stata, nel breve, l’adozione di contromisure di portata equivalente, ma gli effetti complessivi delle politiche di retaliation (letteralmente, ritorsione) non sembrano produrre effetti compensativi. Anzi, i suggerimenti giunti al policy maker europeo dalle commissioni di studio del fenomeno (non ultimo il report del Monetary Dialogue Papers di marzo 2025 a cura anche di esperti della nostra Università come i professori Giavazzi, Favero e Monacelli), hanno sostenuto in queste prime settimane che molto più efficace sarebbe stato adottare una politica attendista e lasciare che gli adeguamenti dei tassi di cambio euro-dollaro compensassero larga parte degli effetti devastanti dei dazi. Nel frattempo, i diversi Paesi hanno avviato delle negoziazioni indipendenti e individuali ed è notizia di questi giorni che la Cina sembrerebbe aver chiuso un accordo reciprocamente soddisfacente con l’amministrazione americana.
Quello che rimarrà quindi di questo lungo periodo di aggiustamenti progressivi tra tariffe reciproche, accordi riservati, oscillazioni dei cambi e impatti sull’occupazione (si stimano tra gli 8.000 e i 10.000 posti di lavoro persi per ogni miliardo di Euro perso in termini di PIL dell’Unione) è un terremoto nelle supply chain e una ridefinizione delle scelte strutturali (mercati di approvvigionamento, infrastrutture e tecnologie) e delle politiche di gestione (criteri di pianificazione, flessibilità delle reti logistiche e dimensionamenti dei magazzini). Non è improbabile che si dovrà procedere anche a ripensare i criteri di progettazione e quindi di assemblaggio e completamento di alcune categorie merceologiche più complesse, di fatto assecondando lo scopo dell’amministrazione statunitense di riallocare parte delle operazioni produttive sul proprio territorio.
Analizziamo con ordine queste implicazioni a medio-lungo termine.
I dazi generano un effetto a catena su tutta la filiera logistica. L’aumento dei costi di importazione incide sulle spese di trasporto e movimentazione, poiché le aziende ammortizzano l’incidenza delle tariffe movimentando carichi meno frequenti ma più voluminosi. La pianificazione dei flussi e le dimensioni degli stock quindi ne risultano profondamente influenzate, poiché invece negli ultimi 40 anni avevamo ridisegnato le catene logistiche nella prospettiva del just in time e dello zero inventory, che in breve si traduce in stock molto bassi e flussi molto frequenti, anche se di piccole quantità. Oltre alla riduzione dell’incidenza media del dazio, l’incertezza nel breve in ordine alle variazioni improvvise delle tariffe induce le aziende ad aumentare i livelli di magazzino nei Paesi di destinazione, con effetti sulle immobilizzazioni in capitale circolante. La tensione che ne consegue sulla liquidità e sull’agilità operativa si traduce quindi in tensione finanziaria e costi crescenti, non solo per la gestione operativa delle immobilizzazioni, ma proprio per il finanziamento delle medesime.
La complessità gestionale dei dazi, che richiedono di discernere tra le diverse categorie merceologiche in fase doganale, inoltre, rende più complesse e lente le attività doganali stesse. I tempi più lunghi e i rischi di ritardi e di errori determinati dalla produttività delle autorità doganali incidono quindi sull’affidabilità e sulla tempestività, due misure essenziali ai fini del cosiddetto servizio logistico. Il danno che si produce è proporzionalmente maggiore per le filiere di prodotti ad alta obsolescenza (alimentare) e con cicli di vita brevi o brevissimi (tecnologia e fashion).
Sebbene non semplice, quindi, la contromisura più efficace diviene ristrutturare le catene di fornitori, coinvolgendone di alternativi (o locali) non colpiti dai dazi e rilocalizzando parte della produzione. Non è semplice, tuttavia, perché il disegno della politica protezionistica americana, da un punto di vista industriale a medio-lungo termine non privo di autentico valore strategico, si scontra con la differenza tra gli impatti dei dazi , evidenti già nel breve termine, e i tempi fisico-tecnici della ricostruzione, perché di questo dovrebbe trattarsi, di una base industriale con capacità e competenze che quaranta anni di outsourcing e offshoring manifatturiero hanno impoverito o del tutto distrutta.
Altra soluzione perseguibile diventa l’adozione di modelli di distribuzione basati su magazzini decentrati in territorio americano, allo scopo di avvicinare il prodotto al consumatore finale ed evitare parte dei dazi sull’importazione diretta. Queste misure, come detto di natura strutturale, potrebbero essere accompagnate dall’arricchimento dei compiti svolti presso questi operatori logistici, incaricandoli di operazioni di cosiddetto postponement produttivo e logistico, ossia di attività di assemblaggio, completamento e packaging del prodotto realizzati in ragione dell’ordine del cliente locale. Queste iniziative, che come dirò più avanti, implicano un ripensamento di impostazione progettuale del prodotto ai fini della nuova logistica distributiva, consentono di ridurre l’impatto dei dazi sul destinatario e anche l’immobilizzazione in circolante, perché il valore delle componenti disassiemate e stoccate è minore del valore dell’equivalente prodotto finito.
Dal punto di vista gestionale, la minore flessibilità della rete logistica e distributiva dovrà essere compensata da una migliore capacità di previsione, pianificazione e gestione operativa dei flussi e soprattutto degli stock, che - come detto - tenderanno ad aumentare in quantità. Il problema principale del magazzino, tuttavia, rimane che i volumi delle referenze stoccate non sempre garantiscono di rispondere alla domanda in misura tempestiva, perché il livello di servizio logistico dipende anche dalla varietà dello stock. Mi aspetto tuttavia che un apporto significativo possa essere offerto dall’utilizzo delle tecnologie predittive alimentate dall’Artificial Intelligence e nutrite dei dati sempre più disponibili lungo le filiere logistiche laddove sono stati avviati processi di innovazione logistica e produttiva in ottica 4.0 e 5.0.
Infine, come anticipavo, sarà necessario riprogettare il bene fisico. Al fine di poter favorire l’implementazione di forme di postponement produttivo e logistico il prodotto deve essere concepito secondo criteri di forte modularità, progettato per operazioni semplici e a basso di costo (sia di investimento sia operativo) di assemblaggio. Parimenti dovranno essere ripensate le attività eventualmente di composizione dei kit e di imballaggio, in modo che possano essere effettuate dalla terza parte logistica locale.
Non si tratta di sperimentazioni innovative, in realtà, perché già da anni, ad esempio, l’automotive di alta gamma e l’automazione industriale ad alto valore, nei Paesi in cui i dazi all’importazione sono presenti da tempo come l’India e il Brasile, ha adottato il modello industriale del cosiddetto Complete Knock Down, che prevede la spedizione e lo stoccaggio delle parti “sciolte” di prodotto e poi l’assiemaggio da un licenziatario locale a bassa competenza manifatturiera.
Per quanto riguarda l’Italia, poi, dovremo riflettere sulle implicazioni industriali di alcune misure tariffarie americane. Un dato che non è stato sottolineato in questi mesi all’opinione pubblica riguarda il dazio fino a 1,5 milioni di dollari su scali effettuati nei porti americani da navi costruite in Cina o gestite da operatori con commesse in cantieri navali cinesi. Secondo Conftrasporto, il 17% della flotta italiana è costruita in Cina, ma se si considerano solo le nuove costruzioni ordinate dagli armatori italiani e in consegna nel 2028 questa quota sale all’84%.
Sarebbe forse giunto il momento di ripensare alle strategie industriali di aziende come Fincantieri e dell’intero comparto della nostra cantieristica navale, che negli anni ha abbandonato sostanzialmente il trasporto merci per concentrarsi su militare e navi da crociera.