
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 17 sett 2025
- 4,5 giorni
- Class
- Italiano
Apprendere metodi e capacità di intervento organizzativo per adeguare la struttura aziendale alle attuali esigenze di fluidità e flessibilità di assetti e funzioni.
Carissimi lettori,
con questo post si chiude l’esperienza del mio blog su SDA Bocconi Insight. Nuovi contributi verranno sul tema del “Made in Italy” da colleghi e colleghe ai quali faccio fin d’ora un grande in bocca al lupo.
Fatemi per ciò ricordare come tutto è iniziato e cosa ho in mente per il futuro. Era il febbraio del 2020 (poche settimane prima dell’inizio del Covid) quando mi venne chiesto di avviare questa piccola avventura editoriale. Non ero allora sui social, non conoscevo Linkedin (se non come strumento di ricerca di personale) quando, non senza preoccupazione, venni catapultata nel ruolo di blogger.
Inizialmente la richiesta era di un articolo a settimana. Poi, per fortuna, il Comitato Editoriale divenne più clemente e ci venne concessa una uscita quindicinale. Da allora sono passati 5 anni e mezzo, con una platea di lettori che è andata via via allargandosi. Non posso dire a distanza di un lustro di aver capito come funziona la comunicazione digitale però sicuramente ho compreso e colmato, nel mio piccolo, un bisogno IMPORTANTE. Quello di riconoscere, valorizzare e sostenere le PICCOLE IMPRESE. Di studiarle, osservare le migliori tra loro per teorizzare linee di azione e di comportamento che possono essere prese ad esempio da altre aziende che sono magari un po’ meno forti.
L’ipotesi di lavoro che ho seguito dal post numrero 1 non è mai venuta meno. Ve la riassumo riprendendo alcuni dei concetti chiave che ho trattato in questi anni.
Siamo così. Originali.
L’idea di partenza è che anche in economia, noi italiani, siamo diversi dagli altri e che questa diversità non sia per forza un male. Anzi. “Lo famo strano” per dirla alla Carlo Verdone anche quando facciamo impresa. Le nostre aziende sono infatti caratterizzate da quattro tratti peculiari: piccole dimensioni, imprenditori saldamente al comando, proprietà familiare e vocazione manifatturiera. In altri paesi si riscontra l’esistenza di uno o al massimo due di questi tratti ma è proprio la loro presenza congiunta che ci permette di affermare l’esistenza di un modello solo italiano, per ciò originale, di sviluppo economico. Siamo fatti così. La storia ci ha fatto così. Questa diversità, invece di essere considerata un vizio da correggere o un incidente di percorso, andrebbe riconosciuta ancor meglio e valorizzata al suo massimo. Se siamo da anni, nella parte alta della classifica delle potenze economiche mondiali, lo dobbiamo anche e soprattutto al nostro capitalismo di piccole imprese (ma non solo: imprenditoriali, familiari e in prevalenza manifatturiere).
“Tu vuò fa’ l’americano ma sei nato in Italy…..”
Questa peculiarità, senza ovviamente nulla togliere ad altre economie di successo che sono molto diverse se non opposte alla nostra (fatte per esempio da grandi dimensioni, managerialità diffusa, capitale aperto ad investitori istituzionali o alla quotazione, presenza in settori hig tech), dovrebbe essere sempre di più giocata come un elemento differenziante sul quale costruire un vantaggio competitivo proprio rispetto agli altri paesi. Perché continuare in tentativi, un poco utopici e spesso goffi, di inseguire traiettorie di sviluppo standard che non ci appartengono?
Ruspe su Firenze
Abbiamo piccole imprese familiari che potrebbero essere paragonate (anche per la loro localizzazione) a comuni meravigliosi conosciuti in tutto il mondo come Firenze e altre, meno note, simili agli stupendi borghi minori che abbiamo disseminato lungo la penisola. Perché demolirle appena possibile invocando per loro una trasformazione doverosa in Manhattan o Cupertino? Perché, invece, non partire dalle loro peculiarità e riconoscere nel loro modo così particolare di fare innovazione, di produrre e di rispondere ai bisogni dei clienti di tutto il mondo, la nostra più grande abilità? La nostra bravura?
In ambito accademico e mediatico si demolisce piuttosto che riconoscere il positivo esistente e così facendo si commette l’errore – gravissimo a mio avviso in questi tempi di decrescita demografica – di allontanare i pochi giovani presenti dal tessuto imprenditoriale italiano. Non dico che non si debbano trattare temi internazionali, non sono così becera da voler escludere modelli, teorie o riferimenti che provengono da altri capitalismi. Ci mancherebbe. L’apertura porta innovazione e chi è attratto dalle grandi imprese managerializzate e finanziarizzate è bene che sia formato per quel tipo di assetto. Semplicemente non trovo sensato privare i giovani della conoscenza del nostro modello originale di sviluppo economico, con i suoi pregi e, ovviamente, i suoi limiti. Non ritengo corretta l’operazione di demolire portando inevitabilmente le nuove leve altrove. Una decisione razionale e matura, lo insegniamo in aula, può partire solo dalla conoscenza e dalla valutazione delle diverse alternative. Altrimenti non è una scelta, diventa indottrinamento.
L’operazione condotta in questi anni, non voleva solo essere rivolta ai giovani per far conoscere loro senza i soliti stereotipi negativi e senza retorica il mondo delle piccole imprese. Doveva servire e credo, modestamente, di esserci riuscita, a supportare anche i seniores, gli imprenditori un po’ più maturi che vengono spesso criticati, giudicati dall’alto verso il basso con lo snobismo di certi professori o con il terrorismo psicologico di taluni consulenti. A questi capitani d’azienda ho continuato a ripetere che non sono un incidente di percorso del capitalismo italiano ma ne sono gli indiscussi protagonisti, veri eroi del quotidiano di questo variegato Paese. A loro ho cercato di dare forza, di valorizzarli rendendoli visibili, di non lasciarli soli, creando una piccola comunità di persone accomunate dalla stessa passione e dai medesimi problemi.
Questo ho voluto fare: offrire loro un supporto per poi, se necessario, portarli a innescare cambiamenti gestionali. Perché le piccole imprese non sono tutte perfette.
Così facendo, scrivendo più di 150 post in questi ultimi 5 anni, obbligata a leggere tutto quello che si diceva in tema di PMI e a mettere nero su bianco le mie idee per condividerle, ho imparato moltissimo. Soprattutto ho capito in modo nitido la mia “missione” (l’ho imparato dai miei adorati imprenditori: i migliori hanno una mission chiarissima in testa): supportare e dare voce ai piccoli. Osservare i migliori e trasferire ad altri le buone prassi attuate dai “campioni” mettendo a punto una formazione a misura di piccola e, addirittura, di micro impresa con modelli e linguaggi specifici.
Termino l’esperienza con SDA Bocconi Insight con la massima gratitudine per chi mi ha incoraggiato a parteciparvi e per chi ha avuto la pazienza di leggermi, ma, adesso che la missione è finalmente chiara, farò di tutto per non fermarmi. Finché avrò l’energia per farlo, continuerò a stare dalla parte delle PMI, a portare avanti le idee di chi mi è stato maestro, a parlare e scrivere di piccole imprese affinché questo modello possa avere il giusto riconoscimento e la dovuta attenzione non solo per quanto ha dato fin qui ma per tutto ciò che potrà ancora fare.
Piccola impresa come indicativo futuro per l’Italia e per tutti NOI.