Il Meglio del Piccolo

La crisi al contrario: non manca il lavoro ma i lavoratori

Settimana scorsa ho partecipato all’assemblea annuale del Gruppo Giovani di Confindustria Cuneo sul tema della rilevanza del fattore umano nelle aziende. Un convegno coraggioso che ha previsto una chiusura inusuale con l’intervento di un sacerdote (Don Luca Peyron) o semplicemente è stato pensato in modo molto razionale dato lo smarrimento diffuso nella società.

 

I contributi degli ospiti che mi hanno preceduto (due giovani imprenditrici, un manager, un sindacalista e una consulente) hanno giustamente ribadito la centralità delle risorse umane e la necessità di costruire, soprattutto dopo i cambiamenti degli ultimi due anni, ambienti di lavoro attraenti e sistemi di gestione rispondenti alle mutate esigenze dei collaboratori.

Nulla da eccepire ma il vero problema, dal lato delle aziende e in particolare delle PMI, non è tanto comprendere la crucialità del fattore umano (aspetto che è in larga parte capito molto bene) quanto averlo a disposizione. Ancor più di prima della pandemia il vero tema per le imprese è la mancanza di lavoratori. Non si trovano persone e non solo nel settore turistico o della ristorazione. Il grido di aiuto è comune e parte dai comparti più diversi.

 

Sembra assurdo e paradossale. Nel pieno di una crisi economica molto pesante (ora anche politica) gli imprenditori italiani vorrebbero assumere e non riescono. Una crisi al contrario dove non manca il lavoro ma i lavoratori.

Tutta colpa del reddito di cittadinanza a detta di molti ma, forse, non solo. Potrebbero esserci ragioni più profonde che causano questa situazione.

Il benessere delle famiglie italiane - mediamente ancora forti in termini di risparmi e patrimonio - che ha consentito negli ultimi trent’anni il diffondersi di una mentalità da società signorile di massa, citando l’interessante diagnosi del sociologo Luca Ricolfi, sta generando il problema della disoccupazione volontaria: quello per cui il lavoro ci sarebbe anche ma viene rifiutato perché non adeguato. Da cosa scaturisce questo comportamento?

 

Immaginatevi il caso di un ragazzo tra i 25 e i 30 anni, figlio unico di una famiglia italiana nella media delle statistiche di reddito, patrimonio e numero dei componenti del nucleo familiare. Egli è, con buona probabilità, il nipote di una generazione di nonni che dagli anni ’60 in avanti ha solo lavorato e risparmiato, investendo parte del denaro guadagnato in immobili. E’, probabilmente, figlio di genitori cinquantenni che, in buona fede, hanno cercato di dare il meglio possibile di quello che offriva il mercato al loro pargolo, garantendogli un tenore di vita “signorile” appunto, caratterizzato dall’accesso a beni e servizi impensabili ai tempi dei loro avi. Dall’asilo all’università passando per licei “leggeri” - per evitare le sofferenze del latino e del greco - il giovane erede è cresciuto, per sua fortuna, in un contesto di benessere diffuso. Non saranno mancati anche i periodi all’estero (sempre scegliendo l’opzione desiderata) per fare in modo che il ragazzo possa provare per sei mesi, a pagamento, ad essere indipendente. Con un curriculum così, in qualche caso completato anche da un master post universitario, il giovane e al fondo tutta la famiglia, nonni compresi, non possono che attendersi un lavoro perfetto, “cool” come i consumi cui ormai lo hanno abituato dallo smart phone, alle sneakers, alla palestra e ai viaggi, pandemia permettendo.

 

Questa mentalità - mediamente diffusa stando alle statistiche dei sociologi - porta a dire no ad una proposta di lavoro non coerente con gli studi fatti, no a degli orari non particolarmente comodi o ad una sede non consona, no ad un settore troppo tradizionale, no ad un’azienda il cui marchio non sia altisonante, no ad uno stipendio che non sia percepito allettante. Questi dinieghi sono supportati dalla famiglia che permette al giovane di essere disoccupato volontariamente non facendogli mancare, come è ovvio e naturale, una casa in cui vivere, un’auto e tutti i benefici accessori elargiti per anni. Per il figlio proseguire nella ricerca di un lavoro ideale (che in pratica non esiste) non è che la scelta più razionale. Più che accusare questo ragazzo di essere viziato bisognerebbe iniziare a riconoscere la sua oggettiva razionalità: perché non comportarsi così nelle sue condizioni? Il reddito di cittadinanza è solo una causa contingente e aggravante. Il vero problema è culturale, educativo. Il benessere delle famiglie italiane (condizione positiva sia chiaro cui si è giunti negli ultimi trent’anni) ha, come tutte le cose della vita, un risvolto negativo. Quando poi si innesta su una tendenza che ci vuole far diventare solo consumatori sempre più opulenti e sofisticati la frittata è fatta. Porta le persone alla ricerca continua del meglio che diventa nemico del bene. Non ho ricette per invertire questa mentalità e nel caso le lascio a chi è più titolato di me ma almeno, da adulti, prendiamone atto. Il lavoro nobilita, qualsiasi lavoro indipendentemente dal titolo di studio raggiunto. Non permettiamo ai nostri ragazzi, derubricati a consumatori esigenti, di diventare dei disoccupati volontari e non lasciamo le PMI, vero motore dell’economia italiana, senza le loro giovani menti e le loro giovani braccia.

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