Il Meglio del Piccolo

Giovani, università e PMI: un'allenza necessaria

Parto da un fatto: la scorsa settimana ho avuto l’opportunità di confrontarmi in aula con un una trentina di giovani. Erano tutti potenziali successori ovvero figli o nipoti di imprenditori che in futuro dovranno prendere il testimone, si spera, dell’azienda di famiglia. Prima di lanciarmi nel mio intervento a sostegno del nostro capitalismo pulviscolare, ho voluto ascoltare questi ragazzi. Mi interessava capire chi erano, quale percorso di studio avevano fatto o stavano facendo.  Ebbene, nessuno, vi dico nessuno, men che meno quelli che avevano lauree internazionali, aveva mai sentito parlare di piccole e medie imprese in un corso universitario.  Molti di loro avevano la percezione che l’economia italiana fosse in declino.

Neanche uno di questi futuri successori ha avuto, in molti anni di studio, l’opportunità di conoscere in modo strutturato le peculiarità del capitalismo italiano: non un modello,  non uno strumento da poter portare tel quel nell’azienda del padre, dello zio o del nonno. Niente di niente. Tabula rasa. E’ vero, si può pensare, sono numeri insignificanti da un punto di vista statistico ma, fidatevi, potrei citarvi molti altri casi analoghi che dicono che questa mancata conoscenza è, purtroppo, ricorrente.

 

Quali sono le cause di questa situazione?

 

Accadde che, mentre a Roma, prima si lancia l’idea del Liceo del Made in Italy e poi si disegna una legge di politica industriale per “la valorizzazione, la promozione e la tutela del Made in Italy” (la numero 206 dello scorso anno), che dovrebbe distribuire fondi a sostegno delle nostre eccellenze nonché prevedere una giornata e una Fondazione dedicata alle imprese e alle competenze per il Made in Italy, nella formazione universitaria i buoi scappano dal recinto.

Mi spiego meglio. Dal versante politico (senza escludere un ovvio interesse elettorale), si sta aprendo, in particolare ma non solo, con questo Governo, un dialogo con l’universo delle PMI. Pure il mondo delle banche, delle assicurazioni e dei servizi in genere (anche in questo caso non senza un proprio tornaconto) sta cercando di avvicinarsi al nostro tessuto economico così peculiare. Chi resta distante, salvo qualche nobile eccezione che sembra però confermare la regola, sono le università di indirizzo socio-economico o tecnico che paiono aver imboccato, quasi per accelerazione centripeta, una traiettoria divergente.

 

Perché i laureati che ho incontrato non avevano mai sentito un accademico pronunciarsi sulle aziende che costituiscono la quasi totalità del tessuto economico italiano?

 

Provo a darvi una spiegazione sia dal lato dell’offerta che da quello della domanda.

  1. Sul versante dell’offerta formativa, ormai da parecchi anni, direi dal 2000, a mia memoria, le migliori università italiane, hanno avviato percorsi di internazionalizzazione. Con uno sforzo importante si sono aperte ad accogliere studenti stranieri, modificando i corsi di laurea e i programmi proposti. Come per una impresa che decide di entrare nei mercati globali, il loro impegno non è stato banale: docenti nuovi da integrare con quelli locali, nuovi contenuti, nuovi calendari e meccanismi di conversione, partnership da costruire con istituzioni d’oltreconfine. L’ingresso nella nuova arena competitiva ha portato a giocare in un diverso campionato con sue regole proprie: non più solo quello nazionale ma quello internazionale dominato dai ranking ovvero dalle classifiche che determinano la qualità di un ateneo rispetto ai suoi concorrenti e influenzano in modo significativo le scelte di ingresso dei futuri studenti. Per essere davvero attrattivi e vincenti a livello globale occorre avere una squadra di docenti realmente internazionale, in grado di pubblicare costantemente sulle riviste che contano nel mondo della ricerca e, non ultimo, forti relazioni con una molteplicità di atenei esteri per favorire i programmi di scambio dei propri alunni. Di conseguenza, per fare solo un esempio, un docente americano, assunto in una facoltà di economia italiana, porterà necessariamente contenuti, materiali didattici e articoli che, nella stragrande maggioranza dei casi, faranno riferimento ad un modello economico che è esattamente all’opposto del nostro: quello delle grandi corporation multinazionali managerializzate e quotate in borsa o partecipate da potenti fondi finanziari. Un modello non deprecabile ma sicuramente molto diverso da quello che ci caratterizza. Lo stesso dovrà fare un professore italiano a cui viene chiesto di insegnare in inglese in parallelo al docente americano dell’esempio: per uniformarsi al nuovo collega, dovrà usare pure lui i manuali che seguono quello che si potrebbe ormai definire lo standard internazionale. Questo modus operandi, partito in origine nei corsi master (i famosi Master in Business Admistration), si è poi diffuso nelle lauree triennali e magistrali con grande successo ovvero con casi di atenei italiani che sono saliti in modo significativo nei ranking, diventando poli di attrazione per studenti da ogni parte del mondo e partner di rilievo di altre prestigiose università straniere.

 

  1. Dal lato della domanda di chi chiede formazione, anche qui da un po’ di tempo, l’internazionalizzazione sta dilagando. E’ diventata compulsiva, a volte parte dalla scuola materna. Se per la generazione degli studenti universitari nata negli anni ’60 e ’70 e per le loro famiglie, immaginare un percorso di studio in parte o in toto all’estero restava una opzione esclusiva, nell’era della globalizzazione delle merci, cioè dal 2000 in avanti, si è globalizzata anche l'istruzione. I genitori, che, in molti casi avevano studiato poco l’inglese e che hanno ben presente l’importanza di una esperienza scolastica e di vita all’estero, potendoselo permettere ma talvolta anche sacrificando altre spese, aderiscono alle richieste dei loro figlioli per seguire corsi universitari internazionali in Italia o oltre confine. L’internazionalizzazione piace e trova tutti d’accordo: i ragazzi sono ben contenti di avere la possibilità di andare in Canada o in Australia per un semestre o per un intero ciclo scolastico (come non capirli….) e i genitori sono altrettanto soddisfatti di poter assecondare un ulteriore upgrading socio-culturale ed esperienziale della loro progenie.

 

L’offerta dunque risponde perfettamente alla domanda e così il gioco è fatto.

Un servizio al Paese

Cosa non va in questa dinamica?

 

Nulla. Anzi le due posizioni in campo sono del tutto comprensibili. Giusto per gli atenei  misurarsi nell’arena internazionale. Ammirevole lo sforzo dei rettori e dei dean di scalare le classifiche globali per vedere finalmente affermata nel mondo l’accademia italiana. Non si può non approvare e promuovere questo sfidante disegno strategico. Così come non si può non capire il desiderio di un ventenne di scoprire nuovi orizzonti, di lasciare la provincia per la metropoli straniera. Nemmeno si può biasimare il sano orgoglio della sua famiglia che può vantare di avere un figlio che sta studiando in un corso internazionale a confronto con docenti e studenti di ogni provenienza. Tutto davvero condivisibile a patto però che i genitori, nei casi in cui vi sia una piccola impresa in famiglia, non si lamentino di non trovare giovani disponibili da assumere, di vivere in un paese destinato solo ad invecchiare, di non avere successori (perché a furia di vivere fuori dall’Italia questi ragazzi non vi fanno più ritorno) o di non vedere in loro persone con le competenze adeguate per migliorare la gestione delle aziende di cui dovrebbero prendere le redini (perché per anni hanno studiato solo modelli forgiati su un altro tipo di capitalismo). Insomma meglio evitare il piagnisteo per una situazione che è solo l’altra faccia della medaglia.

Tornando al versande dell'offerta, ai rettori delle facoltà ad indirizzo economico, tecnico e sociale, che stanno con impegno perseguendo la via dell’internazionalizzazione, andrebbe chiesta una maggiore attenzione al nostro tessuto economico. E’ un appello che credo necessario per cercare di mantenere, all’interno di una visione comunque prevalentemente orientata agli standard internazionali, una nicchia di percorsi di specializzazione e di centri di ricerca dedicati alle piccole imprese ed ai settori in cui esse primeggiano (alimentare, abbigliamento, automazione, arredo, turismo, farmaceutico solo per citare i più importanti). La strada dell’internazionalizzazione non si discute, sarebbe anacronistico, ma compierla non dovrebbe precludere il mantenimento o la costruzione di percorsi formativi per rafforzare il nostro capitalismo di micro aziende familiari. I due temi non sono in contrapposizione. Gli MBA internazionali al primo posto non dovrebbero impedire di portare avanti (magari anche con l’uso intelligente di risorse pubbliche) dei filoni di ricerca e dei corsi per formare una classe dirigente a misura di piccola impresa italiana. Sarebbe un servizio fondamentale per il Paese, per preparare i figli degli imprenditori al passaggio generazionale ma anche per formare coorti di manager in grado di supportare i titolari con gli strumenti adeguati, indispensabili per l’evoluzione ulteriore di questo tipo di aziende. Questo focus sulle PMI potrebbe essere visto anche come un elemento di originalità nell’offerta, di distinzione rispetto ai programmi delle business school internazionali che sono tutti terribilmente uguali; potrebbe essere un fattore in grado di attirare ragazzi stranieri che verrebbero in Italia anche per studiare la nostra cultura imprenditoriale e che poi, opportunamente preparati, magari potrebbero decidere di fermarsi a lavorare nelle nostre eccellenze, se non addirittura scegliere di intraprendere delle attività in proprio nel Bel Paese. Più che investire nel Liceo del Made in Italy (mi pare l’ennesimo indebolimento di corsi robusti come il classico e lo scientifico che tali dovrebbero restare) occorre dedicare uno spazio nei corsi universitari e nei master al nostro modello originale di sviluppo economico. I giovani meritano di conoscerlo per arrivare ad una scelta consapevole, dunque libera e non indotta, del proprio futuro e gli imprenditori meritano di avere nelle loro fila qualcuno di questi ragazzi opportunamente preparati. L'economia italiana ha un enorme bisogno di loro.

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