Il Meglio del Piccolo

La rimonta della piccola impresa sulla grande

Carissimi lettori,
lo spunto di oggi nasce dalla comparazione tra la concezione della persona nelle piccole imprese rispetto a quella presente nelle grandi corporation multinazionali. Siamo proprio sicuri che le PMI familiari italiane siano da questo punto di vista perdenti rispetto alle organizzazioni economiche di grandi dimensioni?

 

Il pregiudizio negativo sull’ambiente di lavoro nelle piccole imprese è ancora molto diffuso. Informale, paternalistico quando va bene, nepotistico se va male, limitato nella possibilità di crescita professionale e di carriera, povero nei sistemi di retribuzione e di incentivi, scarso nella formazione, poco orientato al merito. Insomma, se si segue una certa vulgata, le micro e le piccole imprese italiane non sembrano uscirne benissimo. Ma siamo proprio sicuri che la realtà così descritta e spesso insegnata nelle università e nei corsi di formazione manageriale sia davvero questa? Non è che non stiamo capendo quello che sta succedendo in tendenza e quello che molti giovani lavoratori, soprattutto dopo gli anni della pandemia, vanno chiedendo alle aziende che li potrebbero assumere?

La lettura del libro “Il ritorno del padre” di Claudio Rise’, psicoanalista di grandissima esperienza, mi ha offerto una chiave di lettura molto interessante su quelle che sono state in prevalenza le caratteristiche della gestione delle persone nelle grandi imprese rispetto a quello che avviene (in media) nelle piccole e soprattutto sul perché, a tendere, la minore dimensione potrebbe avere una rimonta importante. Il lavoro di Risè non è un testo di management, quanto piuttosto un saggio sulle metamorfosi e sulle tendenze in atto che chi è attento può leggere in filigrana nella società odierna, con particolare riferimento al ruolo del padre in famiglia e al lavoro.

 

In un libro che intravvede un possibile ritorno del padre nella vita famigliare dopo decenni di quasi assenza dettata dall’inseguimento di mire di status sociale e di ambizioni economiche, ho trovato alcune suggestioni che, se ben comprese, potrebbero portare molti piccoli imprenditori ad avere qualche carta in più da giocare in fase di selezione e di attrazione di validi collaboratori. Secondo Risè la grande impresa ha contribuito ad espellere i padri dall’ambiente familiare generando una privazione pericolosa sui figli: “Dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale si compie l’accantonamento del padre e del suo mondo legato al principio dell’azione e dell’invenzione. Ciò si realizza in contemporanea con il profondo mutamento socio-economico che porta all’abbandono definitivo della trasmissione di arti e mestieri di padre in figlio. In sostituzione della società familiare si afferma il modello della grande impresa (indifferente anzi ostile a rapporti di parentela tra i suoi addetti), che assorbe tutte le energie dei maschi-padri lasciando le incombenze educative a strutture pubbliche o private rette da donne. La grande impresa non crea solidarietà tra i suoi uomini (come invece facevano l’esercito, la compagnia militare, l’ordine religioso o la corporazione delle arti e dei mestieri) ma li mette in concorrenza tra loro. Non esita anzi a rompere il campo nella comunità tra loro, suscitando rivalità per ottenere i favori della grande madre-azienda… 

Questa tendenza è andata avanti inesorabile fino agli inizi degli anni 2000, con il progressivo abbandono in termini di occupazione e il calo di prestigio delle attività artigianali e agricole unifamiliari di minori dimensioni rispetto alle grandi organizzazioni impersonali come le aziende multinazionali. Il lavoro nella piccola bottega era considerato brutto anzi bruttissimo e l’artigiano sporco e ignorante. Spesso i padri hanno disincentivato i figli a proseguire quel tipo di attività. Le crisi economiche nella prima decade del 2000 e la pandemia nel 2020, con dinamiche di dimissioni mai viste negli anni precedenti, hanno iniziato ad accendere qualche segnale in direzione opposta: “L’attuale e cronica situazione di crisi e feroce competizione potrebbe dar luogo (e in parte sta già accadendo) a nuovi e diversi sviluppi, con la riscoperta di modi di produzione di minori dimensioni e maggiormente legati alle strutture familiari. Fenomeni come lo sviluppo industriale del Nord-Est italiano (e non solo), per non parlare dell’artigianato di alta qualità, oggi molto richiesto, indicano la tendenza a strutture di produzione meno impersonali e più partecipate rispetto alle grandi corporations spersonalizzate finora protagoniste dello sviluppo ma anche delle crisi economiche di inizio millennio”.

 

Privo di atteggiamenti nostalgici per il bel mondo antico della bottega artigiana in cui il padre trasferiva al figlio un sapere e un mestiere, quanto piuttosto con l’occhio di un osservatore accorto, Rise’ sottolinea i limiti ormai evidenti del modello delle mega organizzazioni: “La rottura della dialettica padre-figlio nella formazione professionale e lavorativa della tarda modernità ha rischiato di ridurre la figura archetipica del figlio-trasformatore del mondo a quella del burocrate depresso che deve semplicemente inserirsi in caselle predisposte altrove e da altri. La psiche e il corpo umano sono tuttavia previsti per obiettivi più ampi, personali e significativi. La loro mancanza nell’epoca post-moderna crea malattie e disfunzioni negli individui… Ciononostante nella relazione tra uomo-padre e lavoro cominciano ad essere visibili importanti volontà di cambiamento”.

 

Insomma Claudio Rise’, raffinato conoscitore della psiche umana, intuisce una tendenza verso modalità di lavoro tipiche della piccola impresa familiare in cui la persona conta più delle asettiche procedure, le relazioni affettive più dello status e delle trame di potere, la qualità della vita più del denaro, ambienti in cui il dono e la gratuità hanno ancora un valore. Sono solo minimi segni - che per esempio si colgono nelle richieste che alcuni giovani padri fanno nel momento della selezione - che potrebbero nei prossimi anni portare ad una visione delle imprese di minori dimensioni come luoghi e comunità più coerenti ai bisogni esistenziali degli individui, più a misura d’uomo. Senza volere a tutti i costi criminalizzare le grandi imprese e i loro apparati (non ci si può dimenticare dei molti casi virtuosi esistenti), potrebbe essere che la proposta che queste mega organizzazioni economiche fanno ai loro dipendenti ovvero quella di dedicare la propria vita alle scalate di potere e all’acquisizione di denaro per diventare al fondo “animali da compera” quasi perfetti, stia facendo il suo tempo e che una nuova visione sociale meno edonistica ma non per questo naïf, stia qua e là germogliando. Soprattutto nei contesti lavorativi e nei territori dove hanno sede le nostre piccole imprese familiari, ambiti in cui la persona è ancora tale e non è derubricata all’essere solo un numero e un “ricco” consumatore condannato a produrre per spendere. 

 

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