
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 15 Mag 2025
- 4,5 giorni
- Class
- Italiano
Acquisire modelli di lettura e analisi del cambiamento in azienda e proporre metodologie di intervento per trasformare le visioni strategiche in risultati concreti.
Lo chiamano coaching ma in realtà è insegnare.
Tu non gli dici solamente quello che devono fare... gli mostri anche le ragioni.
Con questa affermazione, Vince Lombardi, grande allenatore di football americano, descrive il proprio ruolo e sottolinea l’importanza, in qualità di coach, di non limitarsi al “Si fa così perché te lo dico io”, ma di motivare i propri collaboratori facendo leva sulla loro curiosità e capacità di comprendere il perché di certe scelte.
Un tempo, la struttura standard adottata all’interno della quasi totalità delle organizzazioni era quella definita top-down. Una persona al vertice incaricata di “comandare e controllare” mentre tutti i collaboratori erano responsabili della mera esecuzione degli ordini ricevuti. Il ritmo del loro lavoro era scandito dai mansionari, libri composti da pagine e pagine contenenti istruzioni dettagliate su come procedere a seconda del compito che veniva assegnato. L’esistenza e la validità di quei manuali non era messa in discussione perché le mansioni erano sempre le stesse e potevano durare vent’anni, se non di più. Oggi questo modello sta diventando sempre più obsoleto. Il ritmo VUCA – acronimo inglese che riassume i tratti principali della nostra epoca, ovvero volatilità, incertezza, complessità e ambiguità – ha ormai preso il sopravvento. Tutto intorno a noi ci testimonia che spesso il cambiamento è l’unica costante.
Nel contesto odierno, si sta affermando sempre più un modello basato su collaborazione, fiducia e proattività di tutti i componenti di un team o di una organizzazione. Proprio perché di fronte a contesti complessi si rende necessaria un’intelligenza collettiva.
L’intelligenza collettiva è l’intelligenza di un essere vivente che è il team. È possibile connettere singoli esseri umani, ognuno con la propria sensibilità, peculiarità, diversità, creando un ambiente di fiducia. Da questa connessione parte un livello diverso di interazione, una capacità diversa che è superiore a quella di ogni singolo individuo o alla loro semplice sommatoria (F.Pifferi).
Oggi più che mai si fatica a motivare i propri collaboratori tramite l’approccio di comando e controllo. Sono piuttosto le ragioni, la causa ultima del perché si fa quello ciò che si fa, a rappresentare il motore che muove i lavoratori, soprattutto quelli giovani.
Nonostante questo, i leader sono tuttora restii ad abbandonare la logica sottostante al modello top-down. In altre parole, sono disposti a istruire, ma non ad educare. Istruire deriva dal latino “in-struere,” che significa “inserire/portare dentro”, ovvero inserire collocare qualcosa dentro un contenitore. Nel caso della formazione, questo coincide con l’inserire, inculcare nel soggetto una serie di nozioni. Educare, per contro, deriva dal latino “ex-ducere,” che letteralmente vuol dire “tirare fuori, far venire alla luce” qualcosa che è nascosto.
Si tratta di due approcci estremamente diversi. Nel primo, il soggetto istruito assume un ruolo passivo, di semplice ricezione di informazioni che saranno verosimilmente standard per una molteplicità di individui. Nel secondo caso, invece, l’obiettivo è quello di scoprire e mettere in luce il potenziale di ciascun individuo, perché questi lo possa riconoscere e mettere al servizio della realtà in cui si trova. Questo implica molta più energia e sforzi da parte dell’educatore, fondamentalmente perché implica un rapporto. Implica conoscere l’altro. Conoscere il suo punto di vista e il suo «punto di partenza», così come i suoi punti di forza e i suoi limiti.
È certamente più facile e veloce fornire nozioni. Ma se si trattano i propri collaboratori come individui passivi, come si fa poi ad aspettarsi o addirittura pretendere che partecipino attivamente alla costruzione e alla performance del contesto organizzativo in cui si trovano? Se invece li si aiutasse e li si supportasse nel diventare sempre più consapevoli di sé stessi e di ciò che li circonda, le probabilità di successo aumenterebbero.
Spesso si crede di non avere tempo per tutto questo.
"Bisognerebbe sacrificare un po’ del proprio tempo" - è la risposta ancora oggi più gettonata da parte dei manager.
Esatto, proprio così - risponderei io - sacrificare è la parola giusta.
Perché sacrificare, sempre per giocare un po’ con l’etimologia delle parole, significa proprio “fare un’azione sacra”, celebrare ciò che importa e il suo valore. Identificare il valore, il potenziale dei propri collaboratori, che necessariamente saranno diversi fra loro, e trovare il giusto fit con l’organizzazione in cui sono stati assunti è oggi estremamente rilevante.
Altrimenti, è come voler comporre un puzzle ad occhi chiusi. Il pezzo lo si tiene in mano, ma non si capisce come si può incastrare nell’insieme.