
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 15 Mag 2025
- 4,5 giorni
- Class
- Italiano
Acquisire modelli di lettura e analisi del cambiamento in azienda e proporre metodologie di intervento per trasformare le visioni strategiche in risultati concreti.
Nella società attuale essere connessi 24 ore al giorno, sette giorni su sette, non rappresenta più un’opzione o una caratteristica tipica di chi svolge determinate professioni come quella di medico, dove la reperibilità è uno dei pilastri del mestiere. È diventato, invece, un must per tutti (o quasi). Eppure, proprio i più connessi sembrano essere quelli più esposti al rischio di sentirsi soli. Nel giro degli ultimi trent’anni, la percentuale di persone che si definiscono «senza amici» è triplicata.
Questo dato risulta molto preoccupante anche alla luce di quello che sostiene Debra Umberson, sociologa alla University of Texas (Austin), ovvero che le relazioni sociali supportano la salute mentale, favoriscono un miglior funzionamento del sistema immunitario e cardiovascolare e riducono lo stress. Avere amici, in poche parole, fa bene alla salute e allo spirito. Studi dimostrano, però, che quando si tratta di salute e felicità, queste non aumentano all’aumentare del numero di amici sui social media. Gli amici «vitali», cioè che contribuiscono al nostro star bene, sono quelli con cui ci si abbraccia, si ride e ci si lamenta. Le evidenze empiriche a tal proposito sono così numerose che si è arrivati perfino a definire il numero di vere amicizie (tre-cinque) per raggiungere un benessere ottimale.
Ciò, però, non sembra essere sufficiente per convincere molti a mettersi in gioco in prima persona. Spesso, infatti, si preferisce affidare le proprie caratteristiche, passioni e interessi ad algoritmi capaci di restituire profili di persone affini a sé stessi, tra cui successivamente poter scegliere.
Finché si tratta di divertirsi, i social media offrono certamente una valida alternativa come passatempo. Ma psicologi e sociologi ci avvertono: per sviluppare empatia, consapevolezza delle relazioni e del contesto, e capacità di adattamento occorre, in primis, una chiara comprensione di ciò che è l’altro, della sua diversità. Questa disponibilità a comprendere spesso passa attraverso apertura e confronto. Tale confronto non deve necessariamente essere inteso come negativo, anzi, spesso può risultare estremamente costruttivo, in quanto porta non solo a comprendere la diversità, ma anche a capirne il valore. Di certo questo implica una fatica, un lavoro continuo su di sé, sulla propria persona. Comporta un «riaggiustamento» continuo.
Se si paragona tutto questo con l’alternativa fornita dai social media, dove con un semplice «log-out», si può staccare la spina, si può facilmente comprendere la popolarità di questi algoritmi. Senza togliere il carico emotivo che comunque è presente anche in questo caso, bisogna riconoscere che i social media fungono in questi casi da anestetici. Il soggetto non è direttamente esposto al confronto e alle conseguenze delle proprie azioni e, pertanto, spesso non ne è neanche consapevole. Quello di cui, per contro, ha perfettamente contezza è il potere dei social media di connettere migliaia e migliaia di persone. E se un rapporto non ha funzionato, l’algoritmo fornirà altre innumerevoli opzioni. Il risultato? Relazioni principalmente incentrate sull’«Io».
Perchè cosa cerca l’«Io» dentro a relazioni coltivate secondo questa logica? Sé stesso. Cerca conferma dei propri bisogni, istinti, desideri e priorità. È spesso un «Io» che desidera sicurezza. I rapporti, vissuti così, non agiscono in profondità, perché non muovono la persona, non la fanno «uscire da sé». Per cui in molti oggi sono soli, non perché isolati, ma perché l’unico punto fermo, l’unico termine vero di paragone è e rimane l’«Io».