
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 5 Mag 2025
- 9 giorni
- Class
- Italiano
Affrontare le sfide attuali della funzione HR a 360 gradi, grazie a strumenti metodologici per attrarre, scegliere e trattenere in azienda i migliori talenti.
Carissimi imprenditori,
eccomi di nuovo con Voi, con la speranza che questo sia per tutti, più che mai, un autunno di ripresa. In previsione della imminente riapertura delle scuole, mi sembra opportuno proporvi una riflessione sui giovani e sulla loro preparazione. Il tema è attuale. L’ha posto al centro del suo discorso, all’apertura del meeting di Rimini, Mario Draghi affermando e ribadendo in modo netto la necessità di investire sui giovani e sulla loro istruzione come strumento essenziale per gestire l’incertezza e per acquisire la capacità di adattamento necessaria in tempi come questi. Quanto più il gioco si fa duro tanto tanto più diventa essenziale avere giocatori forti e ben preparati.
La posizione è inoppugnabile e mette d’accordo tutti ma a mio avviso è priva di un tassello importante. Occorre andare avanti nel ragionamento: investire sui giovani va benissimo ma per cosa? Verso cosa dovremmo orientare la preparazione delle nuove generazioni per far tornare a crescere l’economia italiana costituita da milioni di piccole e medie imprese familiari e caratterizzata per la sua storia originale da una imprenditorialità diffusa in settori prevalentemente manifatturieri?
Provo ad articolare una risposta partendo dalle esperienze che il mio lavoro di docente universitaria e di formatrice a confronto con gli imprenditori mi porta ad avere ma sarebbe interessante raccogliere i pareri anche da chi si occupa di formazione nelle scuole superiori e da coloro che sono a contatto con gli adolescenti e le loro famiglie. Vi cito solo due casi tra i molti emblematici che vi potrei citare, i più recenti che mi sono capitati tra luglio e agosto. Userò dei nomi di fantasia - Anna e Marco - per raccontarvi di due giovani, che, per motivi diversi, mi hanno avvicinato nei mesi scorsi. Anna mi ha cercato per chiedermi di essere la sua relatrice per una tesi di laurea al termine del corso triennale in Economia da lei frequentato. Dovendo trovare un argomento per laurearsi e sapendomi cultrice del modello italiano delle PMI, con un po' di sano opportunismo, si è proposta di analizzare il caso dell’azienda della sua famiglia per ragionare sulle difficoltà del distretto in cui essa si trova ad operare. Così ho avuto modo di conoscere Anna. Marco mi ha contattato invece dopo aver ascoltato un mio intervento durante un seminario virtuale, nel periodo del lockdown, per avere un parere su una presentazione da lui pensata per “sensibilizzare” i piccoli imprenditori a gestire le loro aziende secondo un approccio più manageriale. Anna e Marco hanno profili diversi ma con molti punti in comune. Anna ha 22 anni, è una studentessa universitaria, parla inglese perfettamente, ha un’ottima media e ha già avuto un’esperienza di scambio in un ateneo all’estero e di stage in una società multinazionale. Marco è un po’ più grande, ha 28 anni, una laurea triennale in Economia, un master in gestione d’azienda presso una rinomata scuola straniera e lavora come consulente a Milano in una prestigiosa società americana. Due lingue straniere fluenti.
Vediamo i punti in comune. Sono ragazzi, il curriculum parla chiaro, che si sono impegnati e, su di loro, almeno in parte, il Paese ha investito con dei buoni programmi formativi. Per l’età che hanno, rispetto a molti altri coetanei, hanno fin qui “lavorato” sodo e sono ben istruiti. Entrambi sono figli di imprenditori di realtà di minori dimensioni. In entrambi i casi le aziende dei genitori funzionano, vanno bene e non possono che dirsi, per logica, ben gestite. Sia Marco che Anna non hanno però considerato seriamente la possibilità di entrare nell’azienda di famiglia pur in assenza di conflitti con i genitori/titolari. Perché? Quello che ho percepito durante i colloqui con i due è che nessun adulto, tra quelli che hanno incontrato nel percorso di formazione, si è speso per spiegare loro, fino in fondo, la valenza e la positività del modello della piccola impresa. Anzi il pensiero (unico) che avevano incamerato fino a quel punto era quello centrato sui limiti: troppo piccola, troppo familiare, troppo padronale, troppo poco digitalizzata e innovativa, troppo provinciale e così via. Anna era disposta al massimo ad usare l’azienda di famiglia come argomento di tesi, essendo poi costretta a scrivere nelle conclusioni che il vero problema del distretto cui l’impresa appartiene, che ha superato brillantemente la concorrenza globale, la crisi finanziaria del 2009 e non mostra alcun segno di cedimento alla pandemia, sia in realtà la mancanza di ricambio generazionale più che la debolezza dei modelli strategici e organizzativi delle singole aziende. Marco, sfruttando la sua preparazione, per fare qualcosa di utile nel periodo di massima diffusione del Covid, si era messo a produrre dei tutorial teoricamente pensati per aiutare i piccoli imprenditori (a suo avviso impreparati) ad analizzare i loro bilanci. Invece di dedicare seriamente il suo tempo a capire e conoscere in profondità e senza pregiudizi l’impresa del padre che - così mi disse - “era solo un’aziendina da una decina di milioni di euro” si era messo in mente di correggere i colleghi del papà a suon di presentazioni in power point. Nelle teste dei due ragazzi, fuori di dubbio preparati, albergava in modo ingenuo e superficiale l’idea che l’azienda di famiglia non fosse un luogo ideale per spendere le proprie competenze e per svilupparne di nuove, che fosse un posto strutturalmente limitato e quindi non in grado di offrire grandi prospettive future a meno di improbabili metamorfosi. Il successo delle generazioni precedenti veniva quasi negato o comunque non percepito come un’eredità forte sulla quale costruire progredendo ulteriormente.
Capite dov'è il limite? Avere giovani preparati e istruiti in questo Paese è assolutamente necessario ma non è sufficiente. Riempirli di conoscenze moderne (dal digitale alla robotica, passando per la finanza e il marketing) non basta per dare futuro alla moltitudine delle nostre piccole imprese o per sperare di vederne sorgere di nuove, altrettanto di successo.
Il rilancio economico passa certamente come dice Draghi dall’avere giovani preparati ma, anche, dall’avere ragazzi messi in condizione di conoscere il rischio e il fascino di avviare una nuova attività, di capire il privilegio di lavorare in una piccola realtà come dipendenti o comprendere l’importanza della continuità in quanto eredi. Non pretendo che Anna e Marco vadano dritti a lavorare nell’azienda di famiglia, potrebbe non essere la loro strada, ma trovo assurdo che nonostante parecchi anni di studio non avessero avuto ancora l’occasione di incontrare qualcuno che parlasse loro in modo oggettivo dell’universo delle PMI, con tutti i pro e i contro, per poterli mettere in condizione di decidere con raziocinio del proprio futuro. Ricordo il loro stupore mano a mano che discutevamo e il loro interesse per saperne di più: paradossalmente la preparazione che avevano ricevuto fino a quel momento li aveva incentivati ad allontanarsi dall’impresa di famiglia. Ma d’altronde quanti sono i corsi dedicati alle PMI nelle università italiane? Pochi, troppo pochi, sempre meno. Investire sull’istruzione dei giovani in modo standard senza la dovuta attenzione alle peculiarità “del campo di gioco” rischia di far perdere la partita, di vedere le nostre piccole imprese svuotate di potenziali talenti. Perché non provare in questo periodo di grandi cambiamenti ad invertire la rotta? Bisogna esporre i ragazzi senza filtri, senza pregiudizi e stereotipi, alla realtà positiva delle nostre bellissime imprese. Bisogna che siano contagiati dalla voglia di intraprendere. Occorre che la vedano in azione, dal vivo conoscendone i protagonisti. Occorre partire dall’inizio e garantire che nei percorsi scolastici, dalle superiori ai master, si dedichi uno spazio serio a questa tipologia di aziende così importanti per il nostro Paese. E’ necessario fare cultura d’impresa (segnatamente di PMI familiari) e in questo senso ben vengano tutte le iniziative che si muovono in questa direzione anche fuori dalla scuola. Sono certa che molti giovani resterebbero affascinati dal "meglio del piccolo" italiano fino al punto di sceglierlo per la loro vita professionale. Attiviamoci in questa direzione!