Se nei media sventola la bandiera della maternità

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L’essere madre, secondo le recenti dichiarazioni pubbliche di Andrea Leadsom (la candidata alla guida dei conservatori inglesi sconfitta da Theresa May) e di Manuela Carmena, battagliera sindaca di Madrid, dovrebbe rappresentare una sorta di vantaggio competitivo. Solo se sei mamma «puoi avere a cuore la nazione», solo se sei mamma puoi avere la cultura del quotidiano e della gestione delle cose pratiche, indispensabile per amministrare una città. Quindi le donne amministrerebbero meglio perché brave casalinghe o perché mamme.

Questo dibattito pone al centro alcune questioni importanti per la vita professionale di ciascuna donna. È vero che la maternità genera delle competenze distintive anche per il ruolo professionale? È importante fare della maternità un messaggio chiave della comunicazione mediatica?

La maternità nella vita professionale delle donne è stata fino a oggi vissuta come uno stigma[1]. Nel mercato del lavoro e nel modello di carriera attuale, avere dei figli è stato considerato un limite. L’assenza (o la presunta assenza) per maternità genera infatti degli stereotipi sulle donne che sono all’origine di modifiche del comportamento dei capi e dei colleghi nei loro confronti, nella convinzione che l’essere madri cambi le attitudini delle donne rispetto al loro lavoro e alle organizzazioni. Inoltre la maternità è stata considerata un costo per le aziende: a parità di competenze si preferisce un uomo perché assumere una donna significa incorrere in maggiori rischi e maggiori oneri. Le donne, stando a casa per un periodo di tempo, costano di più. Queste convinzioni, peraltro prive di fondamento scientifico, e i comportamenti a esse correlati, sono ancora profondamente radicati nella cultura delle imprese italiane, al punto da comportare per moltissime donne una rinuncia alle proprie aspirazioni professionali: o sei mamma o sei una manager, così come è stato ultimamente ribadito a Giorgia Meloni nel corso della sua campagna elettorale per le amministrative[2].

Per avviare un processo di cambiamento di questa situazione, evolutivo ed arricchente non solo per le donne ma per le organizzazioni in generale, è importante comunicare che la maternità non è un vincolo, ma un’occasione di crescita personale che apporta valore anche alla vita professionale.  Per esempio, la capacità di prendersi cura dei figli si traduce nella capacità di prestare attenzione ai collaboratori e ai clienti. Si diviene più capaci di motivare gli altri e di adottare uno stile partecipativo e collaborativo a fronte di una visione condivisa; si amplia il proprio potenziale di ascolto come premessa per costruire relazioni empatiche e basate sul confronto. La maternità è una palestra di scelte continue, un allenamento alla gestione della complessità che consente di sviluppare capacità di problem solving, di decision making, di organizzazione e di approccio pragmatico alla gestione. Attraverso la maternità cambia la relazione con il mondo perché si modifica la visione temporale, aumenta il senso di responsabilità per gli altri e per il futuro, allenando quindi la visione strategica e di pianificazione di lungo periodo. Se tutto questo è vero, la forma rischia però di squalificare lo stesso contenuto. Fare del ruolo di mamma e casalinga una bandiera mediatica ha un sapore retrò; la continua rivendicazione del ruolo della donna-casalinga e della donna-mamma, più che l’affermazione di un’emancipazione ormai consolidata, sembra un ritorno al passato: la maternità diviene un simbolo di «potere» esclusivo con la conseguente ricaduta di escludere da questo ruolo gli uomini e di presumere che tutte le donne possano e vogliano avere figli.

Le ricerche condotte in questi anni dal Diversity Management Lab di SDA Bocconi ci guidano a reinterpretare questo dibattito andando oltre il tema di genere. Non è più una questione di maternità, ma di genitorialità, che riguarda il cittadino organizzativo tout court e coinvolge uomini e donne, padri e madri, coppie eterosessuali e omosessuali. Una questione che non riguarda solo la nascita, ma anche la cura dei genitori anziani o dei familiari ammalati. Il sapere «prendersi cura di» è una competenza che diviene via via più necessaria, vuoi per l’aumento delle aspettative di vita, vuoi per il prolungamento dell’età lavorativa. Proprio perché più necessaria e non relegabile a un periodo specifico e transitorio della vita (quello della cura dei bambini piccoli) diviene una competenza sempre più diffusa in tutti i cittadini, uomini e donne.  Ed è questa competenza diffusa a livello sociale e successivamente traslata e valorizzata nella vita professionale che può generare una visione più lungimirante e sostenibile dell’economia e del concetto di benessere. Il tema della genitorialità ci rimanda inoltre alla necessità avvertita da chi vive nella società moderna di integrare una carica identitaria complessa e multiforme, di essere al contempo lavoratori e genitori, senza essere per questo penalizzati e considerati cittadini organizzativi di serie B. Da questa prospettiva, il tema diviene una questione di people strategy e non solo di gender diversity. Ciascuna organizzazione dovrebbe chiedersi se vale la pena dare una risposta organizzativa a un bisogno diffuso dei propri lavoratori.

Un’ultima considerazione riguarda il perché questo dibattito spesso circoscritto alle donne. La distorsione ha a che fare con la tradizionale divisione dei ruoli sociali che associa storicamente al genere femminile gli aspetti di cura e di gestione della maternità e degli affetti. Ma numerose recenti ricerche testimoniano che quest’assunto sta evolvendo velocemente e che il bisogno che streotipicamente si pensa faccia parte del vissuto femminile è in realtà un bisogno traversale che riguarda anche gli uomini.

[1]  Per un approfondimento sui temi relativi alla maternità nel mondo del lavoro si veda S. Cuomo, A. Mapelli, Maternità: quanto ci costi? Un’analisi estensiva sul costo di gestione della maternità nelle imprese italiane, Milano, Guerini, 2009.

[2] Per una lettura documentata dei fenomeni accennati in questo paragrafo (tassi di occupazione; segregazione orizzontale e verticale ecc.) si legga il rapporto ISTAT, Come cambia la vita delle donne. 2004-2014.

Fonte: E&MPlus

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