Quale futuro per la leadership politica occidentale? La parola ad Alan Friedman

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Nemo propheta in patria. E Alan Friedman, in questo senso, avrebbe il vantaggio di non essere italiano. Ma era difficile anche per lui, agli inizi di maggio, prevedere come si sarebbe conclusa una delle crisi istituzionali più complicate della nostra storia repubblicana. Nel corso di un Lunch & Learn Talk con gli studenti del programma MBA – Master in Business Administration di SDA Bocconi, il giornalista e saggista americano da lunghissimo tempo in Italia aveva prospettato un rapido ritorno alle urne come l’esito più probabile – ma non per questo gradito – dell’impasse post-elettorale. Ma qualcuno, nei suoi commenti, può trovarci ugualmente qualcosa di “profetico”. Un’alleanza di governo atipica, nata dopo un lungo travaglio e solo grazie al “forcipe” dell’euro-rassicurazione. Premesse che fanno immaginare una strada in salita per il nuovo esecutivo, che rimarrà per un po’ il sorvegliato speciale dell’Europa e dei mercati finanziari.

Ma Friedman non si è limitato alla contingenza politica. Rispondendo alle domande di Francesco Daveri, MBA Director, ha parlato a ruota libera dell’Italia di questi anni e della sua classe dirigente politica ed economica. E secondo il suo stile, non le ha mandate a dire.

Le utili “catene” europee

La conversazione è partita proprio dal rapporto con l’Europa, al centro della crisi politica italiana. Friedman non ha dubbi: non possiamo farne a meno. «Il quantitative easing di Mario Draghi ha incrementato la liquidità disponibile sul mercato di 2-3.000 miliardi di euro negli ultimi due anni. Questo tiene basso il tasso di interesse e l’Italia paga ogni anno “soltanto” 65 miliardi di euro di interessi sul suo debito di 2.300 miliardi. Ma se con la ripresa economica nei Paesi del nord Europa l’Euribor passerà dall’attuale -0,37% a un +1, l’aumento degli interessi sarà nell’ordine dei 10-20 miliardi e la minaccia della speculazione sui mercati finanziari tornerà a farsi tangibile. E in assenza di un governo responsabile il Paese potrebbe andare incontro a un’autentica tempesta. L’Italia è probabilmente protetta fintanto che il QE inietta liquidità nel mercato e nelle banche. Ma il mandato di Draghi scade nell’ottobre del 2019».

Ma è proprio nel contesto dell’unione monetaria che il debito rischia di tirarci a fondo: «Il Giappone ha un debito anche maggiore», continua, «ma è la terza economia al mondo e ha una sua banca centrale che batte moneta e può decidere la propria politica economica».

Allora usciamo dall’euro? Friedman è nettamente contrario all’idea: «Una soluzione impossibile per gli effetti che avrebbe sul costo del denaro, l’inflazione, il debito sotto attacco, i titoli italiani in picchiata (e le banche ne sono ancora piene), il deficit alle stelle. La moneta unica non può essere cancellata, sarebbe un incubo economico. È vero, l’Italia è “incastrata” nell’euro. La moneta unica va molto meglio per la Germania, sono d’accordo. Proprio per questo non avere una politica fiscale comune è un problema per le economie più deboli. Io non credo affatto che l’Europa, come dice qualcuno, si sia spinta troppo oltre rispetto alla sua mission iniziale; penso anzi che ci dovrebbero essere forze armate, guardia costiera e politica estera coordinate. Invece oggi l’Europa è una famiglia disfunzionale. L’unico leader non populista rimasto nei paesi più importanti è Merkel: è pragmatica ed è un baluardo a difesa dei valori democratici, anche se ora è indebolita. Voglio dire: non è che l’Europa non abbia problemi ma non c’è un’alternativa migliore dell’Unione. L’alternativa per il continente sarebbe quella di finire economicamente schiacciata tra USA e Cina».

Dall’Europa alle democrazie che la compongono. O meglio, a tutte le democrazie occidentali e agli elementi di crisi comuni. «Dagli anni ’80 a oggi ho avuto modo di conoscere trenta o quaranta primi ministri e presidenti in tutto il mondo. Ho sempre riscontrato che in campagna elettorale prospettano interventi radicali ma una volta arrivati al potere vengono invariabilmente costretti dal sistema e dagli interessi sovranazionali ad attuare politiche più caute e pragmatiche. L’unica eccezione ora è Trump...».

«In Italia meglio il business che la politica»

La contingenza politica è ingombrante e sembra oscurare l’orizzonte, non è facile guardare oltre. Ma vale la pena di farlo per osservare il nostro paese in una prospettiva più ampia e meno condizionata dall’emotività del momento. Alan Friedman, appassionato e distante in egual misura, è la persona giusta per questo “campo lungo”: che cosa pensa della classe dirigente italiana e del futuro del paese?

«Amo l’Italia ma la mia esperienza degli ultimi decenni mi dice che le persone migliori di questo paese non si dedicano più alla politica ma al business. O forse i politici non sono veramente incompetenti, semplicemente danno alla gente quello che la gente vuole. Del resto gli italiani da secoli sono più attenti all’interesse individuale – pensate al particulare di Machiavelli – che al bene comune. Politicamente è un paese che si è formato 150 anni fa per “l’imperialismo” della ricca borghesia del Nord che ha conquistato il Sud, quasi fosse una colonia». Insomma ci manca la spinta a fare squadra per il bene comune. «Gli italiani cedono alla ricorrente tentazione di fare dell’uomo di successo il loro leader: si dice “correre in soccorso al vincitore”. La questione è culturale: gli italiani sono vittime o complici nel determinare il loro destino collettivo?»

Riforme, amate odiate riforme

Le «riforme», un altro mantra della vita politica italiana degli ultimi 30 anni. Come tutti i mantra che si rispettino, ha avuto finora più la funzione di “sedare” lo scontento o di prospettare un’altra realtà possibile che di cambiare realmente lo status quo. Anche su questo Friedman è tranchant: «Fare le riforme secondo le indicazioni degli economisti internazionali, cioè abbassare il costo del lavoro e la pressione fiscale sulle imprese, rendere più flessibile il mercato del lavoro, migliorare la produttività legando i salari ai profitti, ridurre i dipendenti pubblici del 15-20% a parità di servizi recuperando efficienza, investire davvero sulla meritocrazia: tutto questo è più impopolare di quanto sembri. Gli italiani non vogliono rinunciare ai loro privilegi e a uno dei più generosi welfare europei: ancora oggi l’età pensionabile è la più bassa in assoluto, 63 anni e mezzo, e le pensioni sono più elevate della media europea». Con un’annotazione finale che la dice lunga sulla diversa cultura politica di provenienza: «Per queste posizioni sono considerato troppo liberista, benché io mi ritenga piuttosto di sinistra, un democratico in termini USA».

In termini di (tentativi di) riforme, secondo Friedman il Jobs Act è stato un buon inizio ma bisogna fare di più. «Restano da riformare i centri per l’impiego con i loro 10mila addetti, mettendo in atto politiche più concrete per il collocamento. Bisogna prolungare gli incentivi fiscali all’occupazione femminile, giovanile e degli over-55. Tutto questo richiede un governo attivo che prosegua su questa linea». Un apprezzamento all’impegno di Renzi, dunque, che «ha fatto più di chiunque altro negli ultimi 30 anni ma per questa ragione è diventato estremamente impopolare e si è suicidato politicamente dicendo che si sarebbe dimesso se il referendum costituzionale del 2016 non fosse passato».

Una call to action per le nuove generazioni

Insomma, una lezione di realismo politico per la platea di giovani manager. E visto che il quadro delineato non è troppo incoraggiante, a loro va il pensiero conclusivo di Friedman. Che è quasi una call to action. «Voi che studiate per costruire la vostra carriera e il vostro futuro non dovete dare nulla per scontato. Presto il mondo che conosciamo dalla storia del passato e tutto quello che sappiamo in fatto di democrazie, di politica e di razionalità economica potrebbe essere rovesciato da una manciata di demagoghi dementi. Sta a voi evitarlo».

SDA Bocconi School of Management

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