Fashion & luxury, quando la creatività incontra il management

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Eleganza e lusso, sempre una questione di equilibrio. La regola vale sia per chi li adotta come stile di vita, sia per chi li “produce” e ne governa le dinamiche economiche. Abbiamo chiesto a Emanuela Prandelli, Direttore di MAFED - Master in Fashion, Experience & Design Management, di parlarci dei complessi e delicati meccanismi che regolano questi mercati, delle loro differenze e della costante necessità di bilanciare identità del brand e spinta all’innovazione.

Il management nelle imprese del fashion e del lusso ha aspetti diversi rispetto ad altri settori? E se sì, quali?
Le aziende che operano in questo campo hanno una peculiarità evidente, quella di essere ad alto contenuto creativo. Ciò impone competenze manageriali specifiche perché particolari figure professionali – ad esempio i designer – richiedono un particolare ambiente organizzativo che agevoli il loro lavoro, senza però scivolare in un rilassamento dei processi manageriali. Al contrario, queste aziende hanno bisogno di una gestione anche più rigorosa delle altre per la notevole complessità delle loro operazioni: penso al fashion, dove la quantità di collezioni da presentare sul mercato implica un notevole impegno organizzativo dal punto di vista della gestione del prodotto, della supply chain, della distribuzione e del marketing.
Questo impone alle diverse funzioni di saper dialogare tra loro, coniugando la consapevolezza dei confini del proprio ruolo con la capacità di parlare un linguaggio comune che consenta di capirsi. Se sono un manager o un amministratore delegato di una di queste aziende naturalmente devo essere data-driven come in tutte le altre, cioè devo saper leggere i numeri del mercato, usare un file Excel, selezionare le informazioni chiave per prendere decisioni di tipo strategico. Ma devo anche trovare il modo di comunicare efficacemente con i ruoli creativi, nel rispetto reciproco e riconoscendo il loro valore strategico. Altrimenti si rischia uno scontro “culturale” all’interno dell’azienda, con tutti i danni che possono derivarne.

Anche i processi di innovazione seguono binari diversi in queste realtà?
Nel fashion il tema dell’innovazione è particolarmente delicato in quanto, come accennavo prima, se un tempo avevamo un numero limitato di collezioni all’anno – primavera-estate e autunno-inverno, più eventualmente la cosiddetta “cruise collection” – ora il numero è aumentato e l’innovazione è diventato un continuum.
Accanto alla complessità esiste anche un tema di matrice culturale, che vale soprattutto per il mondo del lusso, dove il concetto di innovazione potrebbe apparire quasi come un ossimoro in quanto il lusso è quasi sempre radicato in un heritage che viene da lontano, in una valorizzazione della tradizione. La questione diventa più delicata perché occorre proiettare nel futuro, secondo i codici del linguaggio contemporaneo, le radici di una tradizione, che va preservata per non diluire l’identità della marca.
Un altro tema richiamato di frequente nel mondo del lusso è quello dell’authenticity: hanno molto valore i brand con un prodotto non solo buono ma anche “autentico”, ad esempio radicato in una qualità artigianale. Altro punto che può sembrare contraddittorio rispetto all’innovazione, la quale spesso è ricerca dell’efficienza e del miglioramento dei processi produttivi. Inoltre l’innovazione in genere è associata a un’idea di velocità, mentre il lusso è senza tempo. Quindi il marchio deve chiedersi se andare nell’una o nell’altra direzione: se puntare sul prodotto tipico dell’innovazione, avviando però un processo di sostituzione continua, oppure su un prodotto archetipico, che perpetua il valore iconico del brand. Ma anche in quest’ultimo caso è necessario farlo evolvere, rinnovarlo nei codici di significazione. Non è un caso che un grande gruppo come LVMH abbia un claim che fa la sintesi tra i due concetti: “Il futuro della tradizione”. Si tratta forse della sfida più importante nel mondo del lusso: capire dove si trova il giusto punto di equilibrio tra passato e futuro.

Quando si parla di innovazione è quasi automatico parlare di strategie digitali. Viene da pensare che questo rapporto tra tradizione e innovazione si giochi non solo nella fase di produzione ma forse soprattutto in quella di comunicazione e distribuzione.

È così, soprattutto per le aziende del lusso, che per lungo tempo sono rimaste indietro riguardo al digitale,  convinte che andare online rischiasse di diluire la distintività e il posizionamento univoco. Il web per definizione aperto, democratico, accessibile a tutti; il lusso per definizione esclusivo, aristocratico, accessibile a pochi. Anche qui si tratta di individuare il giusto equilibrio. Le evidenze più recenti ci hanno fatto comprendere che non si può restare fuori dal gioco, perché il nostro cliente è poi lo stesso che utilizza Amazon Prime per fare la spesa la sera o Airbnb per trovare la casa delle vacanze, ed è impensabile che cambi completamente mentalità quando si tratta di fare acquisti nell’ambito della moda e del lusso. Se il nostro interlocutore vive in un contesto sempre più accelerato, ci dobbiamo adeguare trovando la giusta posizione anche nel mondo digitale.
Oggi la grande sfida nella configurazione dell’ambiente digitale in ambito fashion and luxury è quella della omnicanalità. Non esiste più il consumatore che acquista solo nel negozio tradizionale e quello che preferisce il canale digitale, e quindi non ha più senso cercare di massimizzare separatamente il valore dell’esperienza nei due ambiti. Oggi sempre più il consumatore continua a spostarsi da un canale all’altro e non si può più avere una strategia di marketing per il web e una diversa per l’offline. È necessario invece sviluppare ab origine un’unica strategia da declinare nei diversi canali. Marketing e sales non devono essere “multicanale” ma “omnicanale”, appunto.
E anche in ambito online non vince chi è più bravo a scegliere l’una o l’altra piattaforma ma chi sa creare un ecosistema integrato. Questo significa, ad esempio, usare YouTube per portare il cliente dietro le quinte, Facebook per interagire con lui, Twitter per dargli le informazioni aggiornate, Snapchat per creare la dimensione più esperienziale. Ma il messaggio resta unico. Dobbiamo avere quindi integrazione tra i canali online e offline, tra i vari social network e tra i diversi device, per creare un’unica esperienza per il cliente.

Che ruolo ha in particolare il mondo social in questi settori?
Direi che neppure i luxury brand possono ormai permettersi di rimanerne fuori. Nel fashion la dimensione social è diventata addirittura dominante. Si pensi al fenomeno dei/delle fashion blogger e degli influencer. Si va sempre più verso una logica di content-driven platform che stanno cambiando le logiche stesse dell’e-commerce: le piattaforme non offrono più solo prodotti ma anche contenuti, creati nel linguaggio opportuno. Questo implica la necessità di rivisitare le competenze che le aziende avevano tradizionalmente in casa ed è qui che si rivela strategico il ruolo della formazione: c’è sempre più necessità di individuare nuovi profili legati a questi nuovi tipi di esperienze.

Altra questione fondamentale è quella del customer engagement. Come si declina nell’ambito fashion and luxury che ha un pubblico di riferimento e uno stile comunicativo particolari?
È proprio l’area in cui ho concentrato maggiormente la mia ricerca accademica più recente. La spinta al customer engagement sta diventando predominante in molti settori, a partire dal food e dai beni di largo consumo. In pratica si dice al cliente: costruiamo insieme il prodotto che vorresti. Abbiamo cercato di capire in quale misura queste logiche possano essere estese al mondo del fashion e del lusso. Sicuramente per il fashion è più facile pensare a modelli di coinvolgimento diretto del cliente. Un caso molto conosciuto è quello di Threadless, un’azienda americana che produce T-shirt ed è finita sulla copertina di Inc. come la più innovativa tra le PMI del paese. Tutto il processo creativo e di marketing è in mano ai clienti che disegnano i prodotti, votano i preferiti e si coinvolgono a vicenda viralmente per acquistarli. L’azienda si limita a gestire la parte produttiva e logistica, stampando sulle magliette i disegni più votati e distribuendole. E in questo modo raggiunge un fatturato di 30 milioni di dollari all’anno con il 30% di margine!
I nostri studi hanno rivelato che il coinvolgimento del cliente nella messa a punto del prodotto ha un peso significativo sulla willingness to pay del cliente stesso: proponendo le stesse magliette a diversi gruppi di clienti, alcuni dei quali coinvolti direttamente nella creazione del prodotto e altri no, i primi hanno fatto rilevare una disponibilità di spesa superiore di oltre il 50%. E quelli che non erano coinvolti in prima persona ma sapevano dell’esistenza di una community con potere decisionale avevano comunque una willingness to pay più alta degli altri. Emerge cioè una variabile detta “psychological ownership”: se partecipo, sento di più che il prodotto è mio e quindi sono più disposto ad acquistare. Una strategia di questo tipo non ha solo un impatto diretto sui risultati economici ma anche sull’immagine dell’azienda, percepita maggiormente market-oriented, e in generale del brand.
Abbiamo anche provato a replicare gli stessi esperimenti nel luxury, dove apparentemente il risultato va nella direzione opposta. L’engagement tout court può essere penalizzante perché il cliente è disposto a pagare un prezzo premium proprio perché vuole che il prodotto rimanga aspirazionale: se viene troppo coinvolto nella creazione, il prodotto si avvicina troppo a lui e questo provoca una sorta di effetto reverse U-shaped. È emerso invece che l’engagement funziona benissimo anche nel luxury se i clienti vengono coinvolti non nella messa a punto del prodotto ma in attività “periferiche”, come la vetrina del punto vendita, le campagne di comunicazione e via dicendo. Nella nostra indagine abbiamo inoltre coinvolto i clienti di marchi come Prada, Gucci, YSL o Fendi nella messa a punto di prodotti più o meno status-relevant – per esempio, la scarpa elegante col tacco rispetto alla sneaker, la borsa di pelle rispetto alla messenger, la camicia rispetto alla T-shirt – e abbiamo rilevato che nella prima categoria il customer engagement non funziona, mentre per prodotti dello stesso brand ma percepiti con minor contenuto di status il coinvolgimento dà risultati interessanti.
Un altro modo per trovare un equilibrio nel coinvolgimento del cliente senza perdere il dna del brand è la customization, ovvero la possibilità di apportare modifiche solo ad alcune caratteristiche del prodotto preselezionate dall’azienda. Anche qui la dinamica è interessante: la completa mancanza di personalizzazione dà una percezione “limitata” della marca; un po’ di personalizzazione del prodotto migliora la percezione e l’atteggiamento del cliente; troppa personalizzazione invece inverte la tendenza ed è controproducente. Bisogna allora bilanciare la “brand essence”, l’essenza del marchio, e la “self essence”, la personalità del cliente: zero customization significa solo brand essence, customization totale significa solo self-essence. È il giusto mix a dare i migliori risultati di vendita.

Venendo all’aspetto formativo, quali sono le caratteristiche di un manager del fashion o del luxury?
Come dicevo, in queste aziende è importante che i manager, anche se mossi da una spinta creativa, posseggano solidi strumenti di gestione. L’obiettivo di un programma come MAFED è proprio quello di creare un giusto e solido mix di conoscenze dei processi manageriali classici e della loro contestualizzazione in un campo che ha delle regole del gioco particolari. È il principio che deve ispirare e guidare un programma formativo che voglia creare i manager per questi settori.
In particolare al MAFED abbiamo deciso di lavorare lungo quattro assi, da quest’anno rafforzati in maniera significativa: il retailing e il buying, cioè tutto quello che riguarda il processo di vendita e quello degli acquisti, che in questo settore è particolarmente importante; il merchandising, con il tema dell’innovazione e la peculiarità delle collezioni che caratterizzano il settore; il marketing e soprattutto il customer relationship management: è fondamentale saper gestire e trarre valore da masse di informazioni sempre più cospicue che oggi si generano, i cosiddetti big data; e infine la dimensione digitale, di cui abbiamo già parlato. Oggi queste quattro aree presentano un interessante potenziale di assorbimento nel settore e vogliamo svilupparle sia con corsi dedicati che con progetti sul campo a cui gli studenti lavorano per più di tre mesi e che consentono di applicare le conoscenze acquisite ai casi reali.

La dimensione italiana è sempre stata una carta vincente nell’ambito della moda e del design. Lo è ancora?
In questo settore l’importanza del Paese di provenienza è grande, soprattutto nella dimensione del lusso che si fonda sull’autenticità e l’heritage. Questo fa sì che il Made in Italy abbia un potenziale che continua a rappresentare un grandissimo vantaggio competitivo. Certo, nel fashion e soprattutto nel fast-fashion il prezzo è un fattore dominante e quindi l’esternalizzazione è necessaria per rimanere competitivi. Nel luxury invece il marchio Italia è rimasto garanzia di qualità: ancora una volta se il prodotto deve rimanere aspirazionale e indicativo di status, il fatto che sia prodotto da artigiani con secoli di storia alle spalle è ancora un asso da giocare, anche laddove si entra a far parte di un gruppo che non necessariamente batte bandiera italiana.
L’importanza del Made in Italy, del resto, è ben rappresentata dalla piattaforma Italian Excellence creata da SDA Bocconi che unisce al fashion & design il food & beverage e l’arte, tutti contesti in cui la componente dell’italianità fa ancora la differenza.

 

SDA Bocconi School of Management

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