Per capire l’effettiva diffusione del nazionalismo economico in Europa, è stata svolta una ricerca sui partiti politici di 15 Paesi europei occidentali tra il 1985 e il 2015. Utilizzando i dati del Manifesto Project, sono stati individuati quattro gruppi di partiti: sinistra isolazionista; sinistra pro-globalizzazione; destra liberista; nazionalisti economici. Gran parte dei partiti generalmente descritti come appartenenti alla destra radicale e populista sono ricaduti in quest’ultimo gruppo.
Successivamente, sono stati analizzati i risultati elettorali dei partiti dei quattro raggruppamenti nel periodo 1985-2015. Si è evidenziata una crescita sensibile (dal 40 al 60 per cento dei voti complessivi) delle forze ostili al libero scambio: non solo i nazionalisti economici, ma anche la sinistra isolazionista, che raggruppa quelle forze che si oppongono alle istituzioni sovranazionali invocando politiche imperniate sulla redistribuzione. I partiti classificabili più strettamente come destra radicale e populista hanno visto una crescita media nelle varie tornate elettorali da meno del 2 per cento dei voti nel 1985 a quasi l’8 per cento nel 2015.
Alla radice di una tendenza così chiara, diffusa in tutto il continente, ci sono ragioni di carattere strutturale. Un primo elemento da considerare è la globalizzazione: l’apertura al mercato globale, e in particolare alle importazioni da economie emergenti (prima tra tutte la Cina), ha avuto effetti molto differenziati sulla forza lavoro nei Paesi europei. A essere colpiti sono stati infatti soprattutto i lavoratori a bassa retribuzione e qualificazione; questi lavoratori hanno avuto la percezione non solo di un impoverimento materiale, ma anche di un sostanziale disinteresse della classe politica per le loro istanze. Un’analisi delle regioni europee colpite più negativamente dalla crescita delle importazioni dalla Cina tra il 1990 e il 2007 conferma le ripercussioni della globalizzazione nelle urne: negli anni successivi al manifestarsi dello «shock cinese», crescono significativamente i consensi per la destra radicale.
Un secondo fattore è rappresentato dal cambiamento tecnologico, che ha determinato una crescente polarizzazione del mondo del lavoro tra occupazioni altamente qualificate e ben retribuite e lavori manuali a basso reddito. Più specificamente, negli ultimi anni l’affermarsi dell’automazione industriale ha avuto ripercussioni negative sui livelli occupazionali dei lavoratori non qualificati, determinando un vero e proprio «robot shock». Anche in questo caso, l’impatto è netto e ben quantificabile a livello elettorale: nelle regioni europee con la maggior presenza di lavoratori esposti al rischio di sostituzione da parte di robot, i partiti della destra radicale hanno accresciuto sensibilmente la propria quota di consensi.
I successi elettorali dei nazionalisti economici non possono pertanto essere spiegati come un semplice voto di protesta. Al contrario, sono il riflesso di una nuova spaccatura all’interno delle società europee, che vede i perdenti della globalizzazione opporsi alle classi dirigenti tradizionali e schierarsi dalla parte delle forze nazionaliste e della destra radicale. Questo nuovo allineamento è motivato dall’ostilità verso istituzioni sovranazionali come l’UE, alle cui politiche viene attribuito un impatto negativo sull’economia nazionale; allo stesso tempo, non è sempre giustificato da un’effettiva coerenza tra gli interessi dei perdenti della globalizzazione e le ricette economiche propugnate dalla destra nazionalista. Tra i fattori che fungono da collante, a livello culturale, c’è l’ostilità verso gli immigrati: questa risulta più diffusa non nelle regioni europee con il più elevato tasso di popolazione immigrata, bensì in quelle che risentono maggiormente degli effetti economici della globalizzazione e del cambiamento tecnologico.