Sotto la lente

Non tutto il digitale è trasformazione

Da qualche settimana nei gruppi WhatsApp di chi si occupa di management è apparso almeno una volta il meme che, imitando un questionario a risposta multipla, chiede chi, nell’ultimo periodo, abbia guidato la trasformazione digitale dell’azienda. L’opzione «c», cerchiata in rosso, lascia ben pochi dubbi: non il CEO (opzione «a»), non il CTO (opzione «b»), ma è stato il Covid-19 il driver fondamentale! Un sorriso fra l’amaro e il divertito avrà accompagnato centinaia di destinatari del messaggio, già col dito pronto al forward e il pensiero «è proprio vero, questa devo girarla al mio collega dell’IT!».

 

Per quanto simpatico, il meme in questione nasconde un errore concettuale di fondo, piuttosto pericoloso per il mondo delle aziende. Ma andiamo con ordine.

 

È fuor di dubbio che la situazione di lockdown conseguente alla diffusione del Covid-19 abbia accelerato in modo inimmaginabile l’adozione di strumenti, soluzioni e prassi di lavoro digitali. Ciò a tal punto da far dubitare della stessa capacità della rete di sostenere un mondo completamente, o quasi, transitato dall’offline all’online. Una transizione, quella dall’analogico al digitale, che ha riguardato non solo istituzioni e organizzazioni, ma ogni singolo individuo, bambini compresi, forzati in pochi giorni a sconvolgere completamente la loro modalità di apprendimento. O quasi. E proprio in questo «quasi» dobbiamo collocare la nostra riflessione.

 

La maggior parte delle scuole e degli insegnanti ha proseguito la didattica online, fornendo materiali in formato elettronico come registrazioni audio o video delle lezioni frontali e dei compiti (tanti o pochi, è un dibattito in corso, ma del tutto relativo). In sintesi, la classica giornata in classe è stata messa in una sorta di grande file .pdf da inviare via posta elettronica o da appendere in una bacheca virtuale. Da analogico a digitale. Così come la giornata in ufficio di milioni di persone si è spostata online. E come gli intimi spazi domestici si sono adeguati a fungere da improbabili stazioni di co-working, il lavoro si è adattato, costringendo le persone ad adeguare le proprie mansioni all’online. Ma l’adeguamento non è trasformazione: è adattamento, è conversione. Da analogico a digitale. Gli stessi processi aziendali sono stati adattati: sono perlopiù stati «zippati» e «pidieffati» (termini tanto orribili quanto efficaci), non certo ridisegnati. Anche la logica stessa di gestione del lavoro non ha abbracciato nel profondo la filosofia dello smartworking, al più abbiamo visto la diffusione allargata e superficiale del telelavoro. Un fatto su tutti dimostra empiricamente questa evidenza e non necessita di ulteriori commenti: il mercato dei software per il monitoraggio remoto delle postazioni dei lavoratori è esploso nel mese di marzo 2020. Anche il controllo si adegua. Da analogico a digitale.

 

Ciò che conta evidenziare, in tutti gli esempi riportati, è che la sostanza di quanto individualmente e organizzativamente facciamo è tendenzialmente rimasta immutata. In sintesi, ciò che il Covid-19 ha guidato senza ombra di dubbio è un’ondata di «digitization» senza precedenti. Termine brutto da pronunciare ma fondamentale per discriminare i concetti. In termini prettamente informatici, la digitization è la mera conversione di un dato da analogico a digitale, il cui fine è rendere tale dato processabile e trasferibile tramite strumenti ICT. Quando la digitization avviene in un contesto organizzato e strutturato parliamo di «digitalization», ossia l’adozione finalizzata di tecnologie e strumenti digitali, per ottimizzare i processi, migliorare l’esperienza dei clienti, supportare le decisioni manageriali. È evidente che la rapidità di passaggio dall’offline all’online che ci è stata imposta dall’emergenza non ha sicuramente giocato a favore di una premeditata digitalizzazione nel senso proprio del termine. Anzi, proprio questa rapidità ha portato a favorire ancora di più la pratica della mera conversione. Quick & dirty. Basti pensare a come, nel nostro Paese, è stata concepita l’auto-dichiarazione per le necessità di spostamento. Un modulo online (editabile!) da compilare, stampare e mostrare in cartaceo alle forze dell’ordine preposte al controllo. Negli Emirati Arabi lo stesso processo è stato completamente digitalizzato e il rilascio dell’autorizzazione avviene via dispositivi mobili, unici supporti che occorre avere con sé quando si esce. A onor del vero, in Italia c’è stato in questo periodo un buon esempio di digitalizzazione, agognato per anni e arrivato per fronteggiare l’emergenza sanitaria, ma che resterà: la possibilità di ricevere e, soprattutto, di utilizzare la ricetta medica elettronica.

 

Siamo tuttavia ancora piuttosto lontani dalla trasformazione digitale. Questa è una forma particolare di digitalizzazione, che ne assimila ed estremizza i presupposti e la finalità. In primo luogo la trasformazione digitale non è un percorso parziale, limitato a un processo o a un’area funzionale, ma riguarda l’azienda nel suo complesso, con una prospettiva end-to-end che parte dal cliente e dai suoi bisogni. In secondo luogo, il fine della trasformazione digitale non è la semplificazione di un processo, o la messa a disposizione a un cliente di una app. Il fine della trasformazione digitale è abilitare un profondo cambiamento nel modo in cui l’azienda crea valore. Quello che abbiamo capito chiaramente in 5 anni di ricerche condotte al DEVO Lab di SDA Bocconi School of Management è che questo cambiamento avviene solo in presenza di una visione chiara, esplicita, formalizzata e comunicata di cosa l’azienda possa diventare, il tutto affiancato da un piano strategico in grado di concretizzare tale visione. Tuttavia, visione e piano sono due condizioni necessarie ma non sufficienti per far accadere la trasformazione aziendale abilitata dalla tecnologia. Occorre infatti lavorare su un sofisticato sistema di coerenze fra visione, piano, organizzazione, strutture e sistemi IT, meccanismi operativi. Se queste cinque dimensioni non sono allineate, la trasformazione digitale, semplicemente, non avviene.

 

Compreso questo punto, possiamo affermare con assoluta certezza che il Covid-19 non ha guidato alcuna trasformazione digitale. La trasformazione digitale non si fa per disperazione o per risposta a un’emergenza planetaria. Tuttavia, possiamo trarre alcuni spunti manageriali utili.

 

  1. La situazione attuale ha scoperto i nervi delle trasformazioni digitali non completate, ossia non allineate alle dimensioni chiave. Emblematico il caso dei siti di e-commerce presi d’assalto nei giorni del lockdown ma non in grado di consegnare gli ordini ai clienti, segnale di non scalabilità delle infrastrutture IT o, più semplicemente, delle operation. Per molti operatori del commercio elettronico si è creata la tempesta perfetta in termini di ordini, salvo scoprire che i processi in back-office sono ancora manuali o prossimi a una digitalizzazione, in ogni caso inadeguati a mantenere le promesse. Quando si lavora alla digital transformation occorre pensare ai processi in logica end-to-end, e non a silos (ossia front office super responsive, back office manuale).
  2. Lo stato di lockdown ha portato alla luce l’obsolescenza di alcuni business model e che probabilmente non avranno lo spazio economico per tornare nel new-normal, a meno di trovare una vision di trasformazione. Una situazione che assume i tratti del paradosso se pensiamo ai business model più innovativi della sharing economy: chi di noi sarà disposto a salire su un’auto in sharing appena usata da un’altra persona?
  3. Guai a pensare di aver completato un percorso di trasformazione digitale per il semplice fatto di aver attivato il telelavoro o aver aperto un canale di home delivery o e-commerce. La strada è ancora lunga, ma guai a fermarsi. La vera sfida è riuscire ad attivare percorsi virtuosi di apprendimento organizzativo, in modo da bilanciare risposte all’emergenza e piccoli passi verso uno stadio futuro. Usiamo questo periodo per costruire visioni alternative del mondo, c’è poco da perdere e tutto da guadagnare.

 

Il Covid-19 non ha guidato la trasformazione digitale, speriamo almeno che l’abbia innescata, a patto di metterci del nostro. Il virus ha hackerato l’umanità, ma in ogni hacking c’è un’occasione unica di reboot in una versione più resiliente.

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