Sotto la lente

La diversità è un fatto, l’inclusione una scelta che conviene

La diversità è un fatto. Lo sappiamo e lo vediamo ogni giorno: le persone sono dotate di caratteristiche individuali diverse tra di loro, come genere, età, etnia, provenienza geografica, orientamento sessuale, abilità, condizione economica e sociale di provenienza. Le decisioni prese durante la propria vita o gli eventi che si susseguono contribuiscono alle proprie caratteristiche, quali istruzione, reddito, situazione familiare.

 

L’inclusione invece è una scelta. Possiamo decidere, come imprese, università, governi, di mettere in atto pratiche e processi per promuovono le persone rispettando ciò che le rende diverse, permettendo il raggiungimento del proprio potenziale nell’organizzazione e lo sviluppo del senso di appartenenza. L’inclusione è una scelta di equità ma anche di efficienza. Equità, perché inclusione significa lavorare attivamente per dare a tutti le stesse opportunità di partecipazione e offrire pari accesso a tutti. Efficienza, perché l’inclusione genera benefici economici e sociali. In altre parole, conviene. Questo aspetto è meno intuitivo, più difficile da mettere in pratica, ma anche più potente. Poiché i talenti sono distribuiti in tutta la popolazione, includere significa valorizzare una platea di talenti più ampia, e quindi operare una selezione più efficiente. Le persone che si sentono incluse e valorizzate sono più efficienti e le prospettive e l’agenda decisionale si allargano, includendo temi trascurati in contesti senza diversità.

 

Prendiamo il caso ben noto della parità di genere. Le donne rappresentano il 50% della popolazione, il 50% dei talenti e delle competenze, sono più istruite degli uomini nella maggior parte dei paesi sviluppati. Eppure, nessun paese al mondo ha raggiunto la parità di genere. Secondo l’ultimo rapporto del World Economic Forum (2024), ci vorranno 134 anni per raggiungere la parità di genere. Il mondo ha chiuso il 68.5% del divario di genere globale, il 96% del divario in salute, il 60.5% del divario in opportunità economiche e il 22.5% del divario in politica. Alcuni paesi, come Islanda, Finlandia, Norvegia, sono più avanti di altri. L’Italia è fanalino di coda in Europa: per l’Istituto europeo per la parità di genere (EIGE), l’Italia potrebbe guadagnare fino al 12% di PIL aumentando la partecipazione delle donne al lavoro.

 

L’inclusione si realizza attraverso buone pratiche, sviluppando una leadership inclusiva ed eliminando bias e stereotipi. Le buone pratiche permettono l’attrazione, sviluppo e ritenzione di talenti femminili. Per esempio, l’uso del linguaggio inclusivo di genere, la costituzione di comitati di selezione diversificati per genere, un’organizzazione del lavoro più flessibile nei tempi, incluso il superamento dei cosiddetti “greedy jobs” che, secondo Claudia Goldin, Premio Nobel per l’Economia nel 2023, discriminano le donne rendendo impossibile una carriera di successo senza poter bilanciare i tempi del lavoro e della persona. Ma anche il superamento dei “non-promotable task” (tipicamente assegnati alle donne), la trasparenza nei criteri di compensazione e promozione, la presenza di role models e l’azzeramento di ogni forma di molestia. Una leadership inclusiva promuove queste buone pratiche, ma non è sufficiente senza un cambiamento culturale. La rimozione

degli stereotipi e dei pregiudizi è l’aspetto più complicato. Gli stereotipi, anche impliciti, sono difficili da rimuovere e hanno conseguenze persistenti.

 

Un esempio ben noto è quello delle quote di genere. L’introduzione di quote per ribilanciare la rappresentanza per genere, per esempio nei consigli di amministrazione di società quotate, è un’operazione forte, che costringe al cambiamento: gli studi sul caso italiano mostrano che, a seguito dell’introduzione di quote di genere prevista dalla legge 120/2011, la qualità media dei CDA è migliorata, portando a migliori risultati di performance sui mercati finanziari. Questo perché l’equilibrio iniziale non era ottimale. Insomma, una misura che ha non solo accelerato il raggiungimento di una rappresentanza più equa (le donne sono passate dal 7% del 2010 all’attuale 40%), ma ha anche portato a maggiore efficienza - segno che la diversità conviene.

 

Pubblicato originariamente su Fortune Italia

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