Sotto la lente

Il ruolo delle business school e della formazione manageriale in una società complessa

La EFMD Conference for Deans and Directors General ospitata lo scorso 13 e 14 febbraio presso la SDA Bocconi School of Management ha rappresentato un’importante occasione di discussione, aperta e creativa, sulle fondamenta della formazione manageriale. Guidata dal tema-cardine del «Managing impact», la conferenza è stata occasione di confronto e riflessione sull’impatto che le business school hanno, o dovrebbero avere, su individui, organizzazioni e società. In questo contesto, alcuni dei temi salienti hanno riguardato il ruolo della ricerca accademica e della didattica; del personale docente e degli alumni; fino alle attività di collaborazione esterna ed espansione geografica. Si tratta di componenti che, prese nel loro insieme, contribuiscono a creare l’orizzonte entro cui ridisegnare il ruolo delle business school e la loro influenza sui diversi stakeholder.

 

Ma perché parlare di impatto della formazione e della ricerca nel campo del management e perché farlo adesso? Un modo per iniziare a rispondere a tali domande è quello di osservare la traiettoria di trasformazione delle business school da un punto di vista storico. Ci sono varie letture sulla nascita di queste istituzioni, avvenuta fra il XIX e XX secolo; letture differenti che possono però essere interpretate come complementari. Per esempio, lo storico americano Steven Conn ritiene che le business school siano fiorite a cavallo dei due secoli per un desiderio di «prestigio culturale». Secondo questa prospettiva, a quel tempo gli uomini d’affari miravano a ottenere uno status sociale paragonabile a quello di medici, avvocati o ingegneri, maturando la consapevolezza che il solo modo per ottenerlo fosse attraverso una formazione ad hoc in business. In sostanza, la creazione di forti istituzioni educative in economia e management avrebbe favorito l’ascesa di queste discipline nell’empireo di quelle dominanti. Una seconda prospettiva vede nella nascita delle business school un tentativo di creare e trasferire conoscenza utile alla crescita complessiva dei livelli di benessere delle società, identificando nella diffusione della cultura economica e di business un bene comune (public good). Le università si adattarono rapidamente alle necessità di sviluppo dell’industria e dalla fine dell’Ottocento in molti atenei iniziarono a formarsi ingegneri civili promotori dello sviluppo ferroviario, e al MIT vennero lanciate lauree per ingegneri meccanici, ingegneri elettronici e chimici. Dall’inizio del XX secolo il rapporto università-impresa divenne sempre più stretto e diretto. Negli Stati Uniti, lo sviluppo tumultuoso dell’economia e le necessità di razionalizzazione ed efficienza della grande industria fecero crescere la domanda di nuovi manager specializzati in contabilità, finanza, marketing e general management, formati nelle principali business school del tempo, come la Wharton School of Commerce and Finance e la Graduate School of Business Administration (Harvard).

Lo sviluppo di istituzioni di matrice universitaria, specializzate nella formazione delle classi dirigenti dell’industria e della finanza, accelerava la trasformazione dello studio del business dalla pura pratica a una vera e propria professione caratterizzata da tecniche rigorose al pari dell’ingegneria o della medicina. Questa seconda prospettiva era in linea con l’influente opera di inizio Novecento di Frederick Taylor, volta a sviluppare il «management scientifico» fondato su leggi, regole e principi chiaramente definiti. Da quel momento, e nei decenni successivi, la crescita delle business school è andata di pari passo con l’affermazione di una nuova e potente classe sociale, a metà strada fra la proprietà e il lavoro subordinato, quella dei manager e dirigenti aziendali. L’espansione delle grandi imprese rappresentava un terreno fertile e complementare per la formazione manageriale che sosteneva con nuove tecniche e competenze il «triplo investimento» che Alfred Chandler considerava il motore dell’avvento della grande impresa moderna: l’aumento della scala produttiva, il perfezionamento della distribuzione e l’innovazione dell’organizzazione aziendale. L’aumento delle dimensioni e della complessità delle gerarchie manageriali accresceva la domanda di dirigenti con specifica preparazione.

 

Il successivo boom economico degli anni Sessanta ha contribuito sia a moltiplicare la nascita su scala globale di nuove business school, sia ad accrescere la loro importanza nella formazione dei gruppi dirigenti di imprese e istituzioni. Una crescita, questa, che ha avuto un’ulteriore spinta con l’avvento del neoliberismo negli anni Ottanta. Tuttavia, l’avanzare dell’ideologia di mercato radicata sui principi del libero scambio, dell’individualismo economico e dell’interesse personale, ha fatto sì che le business school venissero progressivamente attaccate su vari fronti per il loro modus operandi. Secondo numerosi studiosi, queste hanno gradualmente marginalizzato la questione degli ideali, dei valori, delle rappresentazioni alternative della realtà e del pensiero critico, finendo così per modellare la forma mentis delle classi dirigenti in modo rigido e inefficace rispetto a un mondo che diveniva via via più complesso. Solo qualche anno fa, il grande studioso di organizzazione James March, osservava che: «Le business school hanno perso parte della loro essenziale “connessione filosofica” alle questioni dell’umanità e delle identità umane». In sostanza, secondo questa visione, le business school hanno fallito il loro obiettivo principale: formare leader capaci di guardare al futuro con un prospettiva di lungo termine e secondo i principi dell’etica e della responsabilità.

 

L’ultimo decennio del secolo scorso si è contraddistinto per la crescita della complessità dal punto di vista sociale, economico, politico e ambientale. I grandi scandali finanziari e aziendali (Enron, Libor e molti altri), hanno alimentato la discussione sull’etica manageriale e sullo strapotere delle classi manageriali che guidano le grandi corporation ad azionariato diffuso. I massicci processi di off-shoring che hanno caratterizzato la globalizzazione e alcuni tragici eventi (si pensi al crollo del Rana Plaza, una fabbrica tessile di Dacca in Bangladesh dove si realizzavano prodotti per importanti marchi occidentali, che provocò più di 1000 morti e migliaia di feriti), hanno stimolato il dibattito sui temi delle schiavitù moderne e della responsabilità sociale delle grandi aziende transnazionali. Anche la crisi finanziaria del 2008 ha fatto sentire i suoi effetti, mentre quella ambientale e climatica ha spinto soprattutto le nuove generazioni a richiedere insistentemente alle organizzazioni e alle istituzioni, pubbliche e private, misure adeguate ed efficaci per arginarne i danni. E se la scena socio-politica internazionale lascia intravedere il sorgere di fenomeni di de-globalizzazione (la Brexit e le nuove guerre sui dazi sono gli esempi più emblematici), la rivoluzione tecnologica e la conseguente profonda trasformazione delle competenze tecniche e manageriali richieste, impongono una revisione sostanziale dei percorsi e dei modelli di formazione adottati dalle business school. A rendere il quadro ancora più articolato, ci sono questioni tutt’ora in larga parte irrisolte come le diversità, l’inclusione e il benessere nei luoghi di lavoro. Di conseguenza, la nuova domanda di formazione non riguarda solo gli ambiti tradizionali delle competenze tecniche (hard) o comportamentali (soft), ma anche il piano etico e culturale.

 

I modelli formativi tradizionali e verticali per discipline appaiono obsoleti anche rispetto ai nuovi bisogni di interdisciplinarità. Questa non è semplicemente la somma di diverse discipline o campi di ricerca, piuttosto qualcosa che attraversa i confini fondendo la conoscenza sviluppata nelle diverse aree del sapere. Se gli studi all’interno di una singola disciplina tendono a enfatizzare il rigore scientifico, l’approccio interdisciplinare mira invece a una maggiore rilevanza pratica attraverso l’applicazione di una visione più ampia rispetto alla gestione delle problematiche organizzative e manageriali.

 

Per affrontare tutte queste sfide, le business school dovrebbero essere in grado di offrire una solida integrazione tra le capacità funzionali e una visione più ampia e interdisciplinare che consenta di comprendere a fondo l’impatto delle grandi trasformazioni tecnologiche, ma anche i riflessi sociali, filosofici ed etici della modernità. In un’era di crescente complessità – dove le trasformazioni tecnologiche hanno contribuito a ridisegnare il modo in cui pensiamo, viviamo e impariamo – e in un’era che affronta sostanziali sfide sociali e ambientali, l’impatto che le business school mirano ad avere su persone, organizzazioni e società non può prescindere da un profondo cambiamento: nei valori e negli obiettivi; nei contenuti sviluppati e condivisi attraverso processi didattici innovativi; nel modo in cui è creata, trasferita e disseminata la ricerca scientifica. Presi nel loro insieme, questi elementi contribuiscono a definire, in modo più complesso e articolato, l’equazione umana, organizzativa e di creazione di valore con cui le business school dovranno sempre più confrontarsi, in un futuro che è già cominciato.

 

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