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Insoddisfazione e conoscenza in-finita (parte 1)

Post pandemia si è parlato tanto di dimissioni di massa (great resignation): dimissioni scatenate da un sentimento diffuso di burnout, mancanza di considerazione da parte del management, desiderio di trovare incarichi più soddisfacenti e un maggior equilibrio tra sfera professionale e quella privata. Chi non si dimette, non necessariamente risulta ingaggiato. Anzi. Esistono i cosiddetti quiet-quitters ovvero coloro che si dedicano al proprio lavoro il minimo necessario, ripudiando l’idea del famoso extra-mile. La triste verità è che le statistiche rivelano che circa la metà dei lavoratori si trova in questa condizione. E spesso si tratta dei giovani. Sono certamente numerose le ragioni alla base di questo atteggiamento, anche se una delle cause scatenanti si può far risalire proprio alla gestione stessa di questa insoddisfazione.  

 

 

Una volta sperimentata questa condizione di conflitto - verso l’esterno ma che inevitabilmente crea un malessere interiore -  la soluzione molto raramente è ricercata nel luogo dove il problema ha origine, ovvero nel contesto lavorativo stesso. Spesso, infatti, entrano in gioco i social media e la loro funzione palliativa.

 

Per i giovani, lo smartphone può fornire una soluzione a (quasi) ogni problema. Una cosa però è cercare la data di nascita di Elvis Presley, altra cosa è trovare un rimedio per la propria insoddisfazione in ambito professionale. Eppure, a oggi, viene molto più facile lavorare «tappandosi il naso», e, una volta arrivati a casa (c’è chi non aspetta neanche sera ma approfitta delle cosiddette «pause tecniche» in bagno o nel cortile mentre fuma una sigaretta), aprire LinkedIn per scorrere tutte le offerte di lavoro recentemente pubblicate.

Trattasi di funzione palliativa esattamente perché a volte è sufficiente questo «scorrere gli annunci» per mettere – momentaneamente - a tacere la propria insoddisfazione o per lo meno per riuscire a mitigare il disagio percepito, sognando il lavoro ideale. Non si è più abituati ad andare all’origine del problema. Basta una sensazione, spesso collocabile a livello dell’ombelico, per scappare e trovare altrove un rimedio. Possibilmente rapido. I social media, in questi casi, fungono proprio da vie di fuga, per scrollarsi di dosso la scomodità del presente vissuto. Il terreno di gioco – o di battaglia che sia – cessa di essere (solo) il reale. Subentra la realtà digitale, ma non come supporto (funzione per la quale originariamente sarebbe stata creata) quanto piuttosto come sostituta.

 

L’accesso a innumerevoli informazioni, opinioni, connessioni garantito da Internet non ha più lo scopo ultimo di informare e supportare il proprio vissuto, ma diventa esso stesso «esperienza», a cui viene assegnato lo stesso peso di ciò che viene sperimentato nella realtà. Anzi a volte fa sembrare la realtà un po’ stretta, rispetto alle infinite opzioni apparentemente accessibili. Così i giovani sviluppano un senso di onnipotenza. L’aspirazione al potere, che è sempre stato tipica (e genuina se intesa come sana ambizione!) per chi si ritrova agli inizi della propria carriera professionale, si è trasformata in un’illusione di onnipotenza. Ma nonostante si tratti di un’illusione, è capace di creare dipendenza, come testimoniano recenti statistiche che rivelano un trend ascendente nell’uso dello smartphone (circa il 60 per cento di chi ne possiede uno dichiara di non riuscire a stare più di un’ora senza controllarlo). È stato addirittura coniato il termine «nomofobia». Questo neologismo, nato dall’abbreviazione di «no-mobile-phone», indica il terrore di essere privati dell’accesso alla rete mobile. Alcune ricerche sulla dipendenza da smartphone hanno rilevato, per esempio, che in Gran Bretagna il 53 per cento di chi ne possiede uno manifesta stati d’ansia quando non può usarlo a causa, tra le altre cose, della batteria scarica, della mancanza di credito o dell’assenza della copertura di rete. Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente, due ricercatori all’Università di Genova, hanno proposto che la nomofobia venga inserita nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM, il testo di riferimento per la classificazione delle patologie mentali) proprio per la severità delle conseguenze a cui questa può portare.

 

Anche senza parlare di dipendenza, però, ci si potrebbe soffermare sul fatto che una conoscenza senza fine, nel senso letterale del termine, non necessariamente ha una connotazione positiva. «Fine», dal latino finis, significa «confine, limite» ma anche «scopo, traguardo, spiegazione, definizione». Una conoscenza senza uno scopo, una conoscenza, appunto, incapace di spiegare, di servire al presente vissuto, rischia di avere risvolti negativi, come quello di creare confusione.

 

E così, che si tratti di senso di onnipotenza o «semplicemente» di confusione, il divario tra le aspettative di questi ragazzi e ciò che è «dato» si approfondisce costantemente, e sanarlo diventa un compito sempre più arduo per chi si trova a doverli gestire e guidare. E più il compito diventa arduo, più cresce l’insoddisfazione. Per entrambe le parti.

 

Come gestire, dunque, questa insoddisfazione?

Continuiamo questa riflessione fra quindici giorni su #AboutLeadership, ma nel frattempo, se lo ritenete, potete arricchire tutti i lettori con i vostri insight, esperienze e consigli.

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