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Ciò che ostacola diventa la via

Il mondo da qualche decennio è diventato un groviglio di fatti, imprevisti e complessità. “Perché? Non lo è sempre stato?” – potrebbe ironicamente ribattere qualcuno. Forse, sotto certi punti di vista, sì. Ma è indiscutibile che il grado di complessità stia aumentando grazie proprio all’interazione – prima non possibile e forse neanche immaginabile – tra una serie di fattori e dimensioni un tempo lontanissimi.

 

In questo groviglio, nelle organizzazioni ci si è domandati e ci si domanda sempre più come guidare il cambiamento, come promuovere l’innovazione, come fare business in modo sostenibile per l’economia e per la società.  Sfide tutt’altro che banali, che si potrebbero però riassumere in un’unica domanda: “di che tipo di leadership abbiamo bisogno oggi?”.

 

Tra gli innumerevoli comportamenti e tratti di leadership di cui si discute, ne emerge uno che rappresenta certamente un ingrediente fondamentale per generare un impatto reale, capace di promuovere relazioni e obiettivi positivi nel contesto attuale. Si tratta del coraggio. Abbiamo bisogno di leader coraggiosi. Credo che di fronte alle sfide che ci troviamo a fronteggiare oggi, nessuno abbia da obiettare su questo.

 

Quello su cui, per contro, potremmo non trovarci tutti d’accordo e non aver chiarezza al riguardo, è il significato che attribuiamo alla parola coraggio. E questo, spesso, è perché ci siamo abituati per troppo tempo a definirlo come “mancanza di”. Mancanza di paura, mancanza di fragilità, mancanza di esitazione, e così via. Per essere coraggiosi, occorre eliminare situazioni e comportamenti poco funzionali.

 Brené Brown, professoressa all’ Università di Huston, che ha dedicato oltre vent’anni di ricerca su questo tema, elenca una serie di comportamenti individuali e organizzativi capaci di ostacolare il raggiungimento degli obiettivi desiderati. In primis, Brené menziona il nostro voler evitare conversazioni difficili, usando come attenuante quella di voler mantenere un clima di lavoro “nice and polite”. Relativamente a questo, preferiamo focalizzarci su comportamenti sbagliati invece che, quando necessario, ricercare attivamente e andare a fondo delle paure e sentimenti che guidano questi comportamenti. Questo genera una mancanza di cura nelle relazioni e quindi una maggior facilità di ritrovarsi “disconnessi” da chi ci sta intorno, al lavoro e non. Un ulteriore ostacolo è rappresentato, sempre secondo Brené, da una mancanza di desiderio di mettersi in gioco e pensare in modo creativo, e questo, insieme a una cultura del fallimento erronea, porta inevitabilmente ad un immobilismo generale. Si abbraccia malvolentieri (a volte per nulla) l’idea del continuo apprendimento, e ogni qualvolta sorge un nuovo problema, regna sovrana la fretta e l’urgenza di trovare una soluzione per mettere a tacere il malessere generato. Senza, di nuovo, prendersi il giusto tempo per comprendere a fondo il problema, con il rischio, quindi, di trovare la soluzione giusta per il problema sbagliato.

 

Lo spunto da cogliere rispetto a questo è che queste non rappresentano condizioni avverse al manifestarsi del coraggio. Anzi, tutto al contrario. Sono il terreno di gioco. Non si è coraggiosi nonostante le circostanze ma attraverso di esse. Come diceva Marco Aurelio, ciò che ostacola diventa la via. La via è fatta di tutte quelle conversazioni difficili, di tutti quegli imprevisti per cui bisogna prendersi il tempo necessario per una chiara comprensione, di tutte quelle paure e sentimenti che si generano con e attraverso questa complessità.

Si è coraggiosi incontrando la propria e altrui vulnerabilità, creando con essa una profonda connessione. Coraggio e vulnerabilità non sono da considerarsi diametralmente opposti ma come due dimensioni che vanno a braccetto. Solo così si può essere leader audaci.

 

La nostra capacità di essere tali non sarà mai maggiore della nostra capacità di ascoltare, comprendere e accettare la nostra e altrui fragilità.

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