Teoria in pratica

Il prezzo psicologico della globalizzazione

I lavoratori nei settori più esposti alla competizione internazionale vedono peggiorare in modo significativo la propria salute mentale

Il contesto

Opportunità di crescita da non lasciarsi scappare o minaccia per il benessere e la sicurezza da cui tenersi ben al riparo? Il dibattito sugli effetti a livello aggregato e individuale della globalizzazione si è polarizzato negli ultimi anni intorno a queste due possibili chiavi di lettura. Indubbiamente, le due decadi precedenti la Grande Crisi del 2007-2008 hanno visto un allargamento della partecipazione al mercato internazionale in molti Paesi in via di sviluppo, con un conseguente miglioramento degli standard di vita delle popolazioni; allo stesso tempo, nell’Occidente industrializzato si è registrata una crescente ostilità verso la globalizzazione, sfociata in una nuova ondata di fermenti nazionalisti e populisti.

 

La globalizzazione, però, non è uguale per tutti. L’integrazione nel commercio sovranazionale determina infatti degli effetti distributivi duraturi e molto differenziati a seconda dei settori e dei diversi gruppi di lavoratori: uno dei fattori principali è la maggiore o minore esposizione alla competizione proveniente dal commercio internazionale. Nelle aree in cui si concentrano industrie particolarmente esposte, si registrano una varietà di conseguenze, che vanno al di là dell’aspetto strettamente reddituale: dall’aumento della criminalità a livello locale a una riduzione dei tassi di matrimonio e fertilità, sino a un peggioramento complessivo delle condizioni di salute. Quest’ultimo aspetto, in particolare, si associa a un aumento di suicidi e abuso di sostanze, che potrebbe indicare un peggioramento della salute mentale dei lavoratori più colpiti dalla globalizzazione.

 

La ricerca

Per studiare l’impatto dell’esposizione al commercio internazionale sulla salute mentale dei lavoratori, è stata condotta un’analisi sui lavoratori britannici di 119 diversi settori nel periodo 1995-2007: subito prima, cioè, della Grande Recessione del 2007-2008. In questi anni, il Regno Unito ha attraversato una fase di notevole crescita economica (+34 per cento nel PIL pro capite), una diminuzione della disoccupazione (calata dall’8,7 al 5,3 per cento), ma anche un aumento significativo (+10 per cento) delle importazioni e una diffusione massiccia del ricorso dei cittadini ai servizi di igiene mentale pubblici (+20 per cento dal 2003 al 2007, per un totale di 8 milioni di persone che riportavano disturbi mentali alla fine del periodo).

Grazie ai dati contenuti nel British Household Panel Survey – uno studio longitudinale condotto a partire dal 1991 su oltre 10.000 individui in tutto il Paese – è possibile ricostruire dati relativi all’evoluzione nel tempo della salute mentale di lavoratori appartenenti a diversi settori, più o meno esposti alla competizione del commercio internazionale.

 

I dati dimostrano un chiaro impatto negativo della competizione legata alle importazioni: rispetto a un lavoratore impiegato in un settore al 25mo percentile di esposizione, un lavoratore di un settore più esposto, al 75mo percentile, registra mediamente un peggioramento del benessere mentale di 1,15 punti percentuali. Da un punto di vista economico, il dato può essere quantificato in una perdita netta di utilità di circa 270 sterline per ciascun individuo. In aggregato, l’esposizione alle importazioni avrebbe determinato un impatto economico «collaterale» legato al peggioramento della salute mentale che nel 2007 sarebbe stato pari a una perdita di 5,2 miliardi di sterline, corrispondenti allo 0,35 per cento del PIL del Regno Unito e al 4,4 per cento della spesa sanitaria totale.

 

Al contrario, altri tipi di shock correlati, come l’incremento delle esportazioni e il cambiamento tecnologico, non sono risultati avere un impatto negativo sulla salute mentale dei lavoratori coinvolti: nel primo caso, addirittura, si è riscontrato un leggero miglioramento, dovuto probabilmente alle migliori prospettive economiche che si dischiudono ai lavoratori dei settori coinvolti.

 

L’impatto dell’esposizione al commercio internazionale sulla salute mentale dei lavoratori è esteso ad altri ambiti: da un maggior consumo di alcol, droghe e sigarette alla probabilità di sviluppare disturbi di ansia e depressione; e persino alla possibilità di un peggioramento tanto profondo da arrivare a forme di ideazione suicidaria.

 

Tra i lavoratori dei settori esposti alla competizione internazionale, inoltre, l’impatto psicologico non è omogeneo, ma varia a seconda di diversi fattori: a risentirne in maniera più profonda sono sistematicamente i lavoratori più giovani, impiegati con contratti a termine o assunti di recente, a bassa qualifica, in situazioni economiche precarie o con famiglie numerose. La maggiore esposizione di un Paese al commercio internazionale, quindi, aumenta le diseguaglianze non solo tra i lavoratori appartenenti a settori più o meno colpiti dalla competizione che ne deriva, ma anche tra le diverse categorie di lavoratori all’interno dei settori più colpiti.

 

Gli effetti negativi, inoltre, si estendono anche ai familiari dei lavoratori coinvolti. Anzitutto, le donne che hanno una relazione con lavoratori dei settori esposti riportano un peggioramento significativo del livello di soddisfazione rispetto alla relazione col proprio partner. Inoltre, nelle famiglie in cui il padre lavora in un settore esposto, l’investimento nell’istruzione dei figli diminuisce, così come i livelli di autostima e soddisfazione riportati da questi ultimi.

 

Il meccanismo che sembra essere alla radice di queste dinamiche è legato al maggior rischio di perdere il lavoro a cui devono far fronte i lavoratori interessati: questo impatta non solo su chi perde effettivamente il posto, ma anche su chi lo conserva, in termini di minor crescita delle retribuzioni, minor soddisfazione per il proprio lavoro e un peggioramento complessivo delle prospettive economiche future.

 

Conclusioni e implicazioni

Senza dubbio, a livello aggregato, i processi di globalizzazione hanno portato a un aumento dei livelli di benessere complessivi. A ciò corrispondono però effetti distributivi molto differenziati, che non possono essere trascurati se si vogliono capire appieno le dinamiche economiche, sociali e anche politiche che l’apertura di un paese al commercio internazionale determina.

 

Nei settori più esposti alla competizione delle importazioni, si registra un peggioramento significativo dei livelli di salute mentali dei lavoratori, che finisce per impattare anche sui loro familiari. A essere colpite in misura proporzionalmente maggiore sono proprio le categorie più fragili.

 

A livello di policy, è quindi fondamentale che una maggiore apertura al commercio internazionale sia accompagnata da un potenziamento dei servizi di igiene mentale rivolti ai lavoratori più esposti e ai loro familiari, garantendo anche il supporto finanziario necessario.

 

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