Sotto la lente

Atleti e carriere: perché allenarsi fa sempre la differenza

Gli atleti professionisti sono il cuore del sistema sportivo. Le loro prestazioni e personalità sono alla base della generazione di valore economico, sociale e culturale di club, leghe ed eventi pubblici. Diventare atleta professionista non è facile, rimanere per anni sempre ai massimi livelli è prestigioso ma anche logorante, sia fisicamente sia mentalmente. Gestire la transizione dopo la carriera sportiva è altrettanto sfidante, perché spesso si cambia vita senza un piano ben definito. Partendo da queste riflessioni, sta diventando sempre più importante pianificare con rigore e anticipo le carriere di atleti e delle atlete, sia che decidano di rimanere in ambito sportivo sia passino a un diverso ambito professionale.  

 

Partiamo dall’assunto che la carriera è una e una soltanto. Questa si definisce come l’evoluzione della vita personale e professionale di una persona che si sostanzia in tappe significative. Fare l’atleta non è che una tappa di questo percorso.  

 

Il punto di partenza, quindi, non è la disciplina sportiva che si svolge, ma la persona e la sua dimensione professionale nella sua interezza. Stephen Curry, giocatore NBA dei Golden State Warriors, si presenta sul proprio profilo Linkedin come «NBA Athlete, Entrepreneur, Investor, Producer». Durante la fase della carriera sportiva, un atleta professionista accede a una serie di risorse straordinarie in termini economici, di reputazione, di visibilità e di contatti. Questo vale, in proporzione, anche per atleti di categorie inferiori e con risorse più limitate, che per un certo periodo della loro vita professionale sono al centro di un territorio e di una comunità. Per progettare le fasi successive della propria carriera, è dunque consigliabile sfruttare la fase da atleta. 

 

Tuttavia, come detto, non è semplice pianificare le tappe della propria carriera dopo il professionismo. Diversi studi mostrano dati preoccupanti relativi ai problemi di salute mentale (stress, depressione, alcolismo, scommesse, problemi del sonno) di cui soffrono per esempio i giocatori di calcio già durante il periodo di attività sportiva, problemi destinati in molti casi a peggiorare al termine della stessa. Occorre dunque giocare d’anticipo e adottare una nuova prospettiva.  

 

In tal senso, la migliore immagine di questo modello è quella di una carriera scomposta in diverse fasi. Per una persona che non svolge una carriera sportiva e che va all’Università, la prima fase sarà legata allo studio e alla preparazione all’ingresso nel mondo del lavoro, magari tramite uno stage che le consentirà entro qualche mese di firmare il primo contratto. Lo stesso accade per una disciplina sportiva, dai settori giovanili fino al professionismo. Tutte le energie sono naturalmente dedicate agli allenamenti e alla pratica quotidiana per raggiungere il primo contratto da professionista, per poi migliorarsi per rimanere a quel livello. Solo quando la carriera sportiva può considerarsi consolidata si possono fare altri piani, perché l’atleta ha più informazioni e più tempo per pensare ad altro. Per esempio, a 27-28 anni un/a calciatore/rice o un/a pallavolista hanno compreso le proprie abilità e i propri limiti, sono in grado di gestirsi e, al netto di infortuni, possono iniziare a disegnare il percorso che entro qualche anno li porterà fuori dalla carriera da atleti.  

 

Ecco quindi che nella loro testa emergono alcune domande: quali altre abilità ho al di fuori dell’attività sportiva? Che cosa mi piacerebbe fare nel futuro? Che cosa posso iniziare a fare oggi per vivere al meglio il passaggio da una fase della mia carriera all’altra?  

 

Lo sport professionistico è caratterizzato dalla centralità degli allenamenti. Gli atleti dedicano infatti molte più ore ad allenarsi di quelle dedicate alla prestazione ufficiale. Questo è un modello che andrebbe replicato anche in ottica futura: gli atleti dovrebbero trovare il tempo di formarsi anche in virtù di quanto vorranno fare svestiti i panni dei professionisti, e possibilmente prima di finire la carriera sportiva. Dovrebbero iniziare a studiare, gettando solide basi per comprendere le dinamiche del mondo che li circonda. Se parliamo di atleti professionisti, una parte di queste competenze sono legate ai temi del management e dell’imprenditorialità, in ambito sportivo e no.  

Alcuni esempi in tal senso sono emblematici: Margherita Granbassi (scherma) è laureata in economia; nel mondo del calcio Giorgio Chiellini ha una laurea in economia mentre Giugliemo Stendardo si è laureato in giurisprudenza. Vi sono inoltre atleti che hanno svolto percorsi di formazione manageriale avanzata come Pasquale Gravina (volley), Carlo Molfetta (taekwondo), Danilo Gallinari e Gianmarco Pozzecco (basket), Ivan Cordoba e Javier Zanetti (calcio). 

 

È quindi importante creare le condizioni affinché gli atleti possano studiare, diventare esperti di qualcosa che li appassiona già durante il proprio percorso sportivo. In altri termini, gli atleti devono imparare a riempire il proprio tempo libero con iniziative educative e formative, senza essere vincolati a rimanere nello stesso mondo sportivo per semplice comodità o per mancanza di preparazione e visione di cos’altro offre il contesto professionale. 

 

Esiste un grande dibattito sul fatto che gli atleti debbano laurearsi come avviene negli Stati Uniti. Nei college vige l’istituto dello student-athlete, più volte criticato perché nel tempo questo si è trasformato in athlete-student e poi solo in athlete che dopo un anno di studio passa al professionismo, in base alla regola NCAA e NBA del one and done. Partiamo dall’assunto che le Università negli Stati Uniti sono i corrispettivi dei nostri settori giovanili, perché i Los Angeles Lakers (NBA) oppure i New England Patriots (NFL) non hanno i campionati primavera o under 16 come capita di vedere in Europa in molte discipline sportive. Gli esperimenti americani hanno però dimostrato che studiare (bene) e provare a diventare professionisti non è semplice. Dai 16 anni fino ai 27-28 (età che cambia da sport a sport) non è facile concentrarsi su entrambi gli aspetti. C’è chi darà priorità allo studio e chi invece punterà tutto e solo sullo sport, rinviando il discorso educativo. 

 

Anche se il dibattito è ancora aperto, sono convinto che per coloro che decidono di intraprendere percorsi legati allo sport professionistico non sia facile trovare la concentrazione giusta anche per formarsi. Questo perché lo sport, divenuto mestiere, va anche studiato nelle sue dimensioni tecniche, atletiche e tattiche. Per questo motivo il discorso studio si può posticipare, a patto che si sostituiscano, già durante la propria carriera, alcune ore di play-station (o altre forme di hobby superflue) con valide esperienze formative.  

 

Sempre di più federazioni stanno organizzando iniziative educative per sportivi. La UEFA ha lanciato la UEFA for Players Academy, la FIBA il progetto TIME-OUT. Molte di queste sono progettate con un’impostazione tradizionale, tipiche e valide per chi già ha fatto l’Università o lavora in un contesto professionale strutturato. Credo invece che per coinvolgere maggiormente gli atleti occorra predisporre un percorso personalizzato che rifletta il loro modo di apprendere, e non viceversa, impostando l’esperienza formativa come se fosse una competizione: il modello teorico (l’allenamento a secco) integrato con casi studio (gli esercizi con gli attrezzi), fino ad arrivare all’amichevole (il confronto guidato con esperti) e alla vera competizione che può essere supportare l’atleta in un vero progetto professionale. In estrema sintesi: un percorso approfondito che rappresenti un investimento culturale dell’atleta che vuole prendere la prossima onda della propria carriera con slancio, sfruttando il meraviglioso mondo dello sport e tutta la velocità che questo può regalare. 

 

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