Sotto la lente

Next Generation EU tra rischi e opportunità

La Recovery & Resilience Facility (RRF) è uno strumento del bilancio comunitario per il periodo 2021-2027 all’interno della linea Next Generation EU (NGEU). Nello specifico, la RRF finanzia gli interventi diretti agli Stati membri per la ripresa e la resilienza, per un totale di 312,5 miliardi di euro di trasferimenti (grant) e 390 miliardi di prestiti, rispetto a un ammontare complessivo di 750 miliardi del pacchetto NGEU (la differenza è costituita da fondi che potenziano i tradizionali fondi strutturali comunitari).

La RRF assegna all’Italia circa 82 miliardi di trasferimenti e mette a disposizione fino a 120 miliardi di prestiti, per un totale di 209 miliardi. A fronte di queste somme, l’Italia garantisce contributi aggiuntivi al bilancio comunitario proporzionali al suo PIL (come tutti gli altri Paesi), da versarsi tra il 2028 e il 2058 fino a un massimo di circa 50 miliardi di euro (tali somme potranno essere proporzionalmente ridotte nella misura in cui verranno approvate nei prossimi mesi nuove risorse comunitarie per finanziare il bilancio UE). L’operazione corrisponde dunque a un trasferimento netto di risorse a favore dell’Italia di 30 miliardi di euro, ricevibili tutti nei prossimi anni, e pari a circa il 2 per cento del PIL italiano. A titolo di comparazione, Germania, Olanda e Austria, che di NGEU sono contributori netti, registrano un esborso netto pari a circa il 2 per cento del loro PIL, la Francia dell’1 per cento.

La giustificazione economica e politica di questo ingente trasferimento di risorse tra Stati membri, realizzato per la prima volta attraverso lo strumento del debito comunitario, si fonda su due concetti chiave contenuti nell’acronimo RRF. Innanzitutto, «Facility»: la linea di credito messa a disposizione non è un fondo di copertura di spese, ma uno strumento che agevola, attraverso un finanziamento, il conseguimento di un obiettivo. Obiettivo che è enucleato nelle altre due parole chiave, «Recovery» e «Resilience», ossia la ripresa economica degli Stati membri dopo lo shock del Covid-19 e il suo consolidamento (resilienza).

La bozza di regolamento della Recovery and Resilience Facility (RRF), approvata a fine 2020, delinea una precisa articolazione dei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (PNRR), deputati a rendere operativi questi finanziamenti. In particolare, il programma deve essere articolato su tre assi, finalizzati a: definire azioni coerenti, sia pure in maniera non esclusiva, con le linee guida del modello di sviluppo futuro dell’Europa (green e digital); garantire che le stesse azioni siano implementate nei tempi previsti, dunque vincolando l’erogazione finanziaria allo stato di avanzamento dei progetti identificati, come definiti da un preciso prospetto di obiettivi (milestone) e tempi; sistematizzare i capitoli di spesa in un modello di sviluppo che rilanci la produttività dei singoli Paesi, legando gli interventi di finanziamento a un quadro complementare di riforme, tra quelle già identificate negli anni dai periodici monitoraggi comunitari.

La logica economica del modello di sviluppo sottostante è la seguente: il sostegno agli investimenti attuati in tempi certi garantisce la rapida ripresa (recovery) dell’economia, mentre il legame tra investimenti e riforme funge da moltiplicatore della produttività aggregata di medio periodo (resilience). È per queste ragioni che la linea di finanziamento dedicata agli Stati membri prende il nome di «Facility», distinguendosi in questo da un semplice fondo di spesa.

I PNRR devono dunque agire simultaneamente su questi tre assi: innanzitutto assicurarsi che ogni azione di spesa sia coerente con le linee di sviluppo definite dalle istituzioni comunitarie, in quanto questo assicura la possibilità di attivare piani transnazionali europei che possano realizzare economie di scala a livello continentale, contribuendo in questo modo alla crescita. In secondo luogo, ogni azione di spesa deve essere inserita in un contesto di riforme orizzontali, o riforme specifiche di settore, atte a moltiplicare l’effetto economico dell’intervento pubblico, attraverso l’attrazione di capitali privati. Infine, occorre dotarsi di strumenti di governance atti a garantire una spedita esecuzione degli investimenti programmati tramite i fondi pubblici.

Un Piano Nazionale che non conseguisse congiuntamente i tre obiettivi di coerenza della spesa, capacità di esecuzione e legame tra investimenti e riforme avrebbe scarse possibilità di essere approvato da Commissione e Consiglio (secondo le procedure previste dallo schema di Regolamento). Senza approvazione del Piano Nazionale, nessun trasferimento finanziario può essere erogato a carico del Paese.

Rispetto a queste esigenze, il PNRR italiano recepisce le indicazioni comunitarie di concentrazione degli interventi sui settori dell’ambiente e del digitale, integrandole con altre importanti aree legate al tema della formazione del capitale umano e alla valorizzazione del patrimonio storico, artistico e culturale del Paese. Non viene tuttavia al momento delineata una strategia chiara in termini di gestione esecutiva del Piano, né per quanto attiene al soggetto attuatore dello stesso, né rispetto alla predisposizione di eventuali procedure speciali necessarie a superare le storiche lentezze della pubblica amministrazione italiana, sia a livello centrale sia, soprattutto per quanto attiene ai necessari passaggi autorizzativi, a livello locale.

Resta poi ancora troppo vago il legame tra investimenti e riforme. Il PNRR delinea due aree importanti di riforma, quella della giustizia e quella della digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma la relazione tra questi interventi a carattere orizzontale e il calendario di investimenti previsti restano poco sviluppati.

Mancano altresì dettagli su importanti aree di riforma specificamente legate agli interventi previsti in ambito green e digital: giusto a titolo di esempio, non è ancora stata prevista una rimodulazione della strategia energetica nazionale con l’integrazione al suo interno della filiera dell’idrogeno, uno degli assi portanti di intervento del PNRR italiano, e il suo necessario coordinamento, tra gli altri, con la riforma del trasporto pubblico locale; oppure, insieme agli investimenti sulla fibra, non viene presentato il riassetto degli operatori nazionali del digitale, in particolare il perimetro d’azione della nuova entità TIM-Open Fiber. E si potrebbe continuare.

In sintesi, il rischio più grave che l’Italia oggi corre nel predisporre il suo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è quello di scambiare la RRF per l’ennesimo fondo strutturale, ossia «soldi da Bruxelles» a disposizione delle amministrazioni centrali o locali per finanziare più o meno utili progetti di sviluppo, in tempi più o meno rapidi in funzione della capacità amministrativa. Non a caso, la vulgata nazionale continua a utilizzare in maniera impropria il termine «Recovery Fund» per definire questo processo. Ciò denota, anche semanticamente, un atteggiamento distorto rispetto alle finalità della RRF sopra delineate. Ma una impostazione che non fornisse garanzie sulla effettiva capacità di esecuzione e che denotasse mancanza di complementarietà tra azioni e riforme a esse collegate rischierebbe di portare il Piano italiano, sia pure impostato nei termini di liste della spesa tecnicamente ben studiate, verso un inesorabile muro comunitario.

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