Disrupted

Scienze della vita: una rivoluzione che non lascia indietro l’Europa e l’Italia

Quando si parla di personalizzazione dei servizi e dei prodotti a tutto si pensa tranne che al settore farmaceutico. Eppure, l’industria delle scienze della vita (così è stato ribattezzato il settore per l’impatto straordinario che diversi campi scientifici e tecnologici stanno avendo sulla nostra esistenza), è quello che ben più di altri sta vivendo la disruption di questa nuova rivoluzione industriale. A innovazioni di portata straordinaria come il completamento del progetto Genoma e la strumentazione tecnologica che oggi permette di vedere gli organismi nel dettaglio a livello atomico con sofisticati microscopi, si aggiunge ovviamente l’intelligenza artificiale in tutte le sue sfumature.

 

Certo, impiegheremo degli anni ad avere quella prevenzione e quella personalizzazione che aiuterà finalmente i sistemi sanitari ad essere più efficienti nella gestione delle risorse. Ma la bella notizia è che finalmente stiamo vedendo in opera tecnologie e innovazioni che ci fanno comprendere quale sarà il punto di atterraggio.

 

Partiamo dallo stato dell’arte.

 

Per formulare un nuovo principio attivo che sia contemplato come innovazione radicale si rasentano i 10 anni di tempo e i 2 miliardi di euro e solo grandi case farmaceutiche possono permettersi l’investimento. Per poter essere lanciata una molecola deve essere validata a livello teorico, avere una prova biologica, avere una somministrazione su animale che ne dimostri la validità e avere poi i tre fondamentali e costosi test clinici che passano in rassegna la sua effettiva validità. Perché prima di lanciarla occorre testare, oltre all’impatto sui pazienti malati, l’assenza di effetti collaterali. Test che spesso portano al ritorno alla fase precedente se non alla morte stessa del progetto.

 

Da alcuni anni però il contesto sta cambiando.

 

Il Covid 19 ha rappresentato un esperimento naturale di quello che si può fare oggi. Abbiamo avuto nel giro di otto mesi a disposizione tre farmaci, uno dei quali prodotto con una tecnologia sperimentale e altamente innovativa, l’RNA messaggero, che ha portato anche al premio Nobel Katalin Karikó, la scienziata che lo ha ideato. Certo è stato necessario un coordinamento continentale per risolvere un problema mondiale che non è facilmente ipotizzabile in circostanze normali, ma è di per sé la dimostrazione che oramai la scienza e la tecnologia vanno ben oltre le normali aspettative che si hanno sul settore.

 

Immagine 1

Katalin Karikó
(foto di Christopher Michel)

Immagine 2

Andrea Sottoriva

 

Ad esempio, grazie all’intelligenza artificiale la biologia computazionale può attivare importanti modelli di deep learning che riescono a vedere quello che l’essere umano non riesce a occhio nudo. I ricercatori di Human Technopole al MIND (Milan Innovation District), capeggiati dallo scienziato Andrea Sottoriva, hanno appena identificato un nuovo biomarker per il tumore della prostata. Per non parlare di Demis Hassabis e John Jumper di Google Deep Mind, freschi del premio Nobel per la Chimica del 2024 perché sono riusciti a realizzare il ripiegamento proteico grazie ad Alphafold anticipando un lavoro che l’essere umano per complessità e costi avrebbe impiegato lustri a raggiungere.

 

I laboratori oggi fanno sperimentazione su organoidi, aggregati di cellule che in coltura si auto-organizzano spontaneamente in una forma tridimensionale complessa simile a un organo e che rappresentano nuovi strumenti per fare nuove scoperte ma anche per comprendere il funzionamento di composti prima ancora di provare il farmaco in vivo su animali e pazienti. Esistono poi nuove tecnologie che danno la possibilità di fare gene editing e di produrre cellule staminali. Abbiamo cioè nuove procedure che sono impiegate in via sperimentale nel caso di malattie rare con un potenziale promettente.

 

L’industria è in fermento. Una pletora di aziende specialistiche arricchisce la fase di drug discovery e development, spingendo sempre di più le cosiddette big pharma a concentrarsi sulla fase di testing e a creare un intreccio di alleanze per beneficiare dei loro risultati. In sostanza anche qui si fa “open innovation” e si attiva un ecosistema arricchito da piccole e medie aziende specialistiche, a volte fondate da scienziati esperti di campi disciplinari inesistenti sino a qualche anno fa.

 

E poi tutti questi dati che stiamo imparando ad usare anche in modo artigianale grazie agli smartwatch e ai wearables e che stanno avendo una crescita esponenziale nei consumi, ci porteranno sempre di più a prestare attenzione a criticità del nostro fisico. C’è chi, come il prof Mike Snyder della Stanford University, che ha all’attivo 17 startup che cubano 7 miliardi di dollari, ha cominciato con dovizia a legare questi dati a campioni studiati da genomica e proteomica per aiutare ad attenzionarci sempre di più alla prevenzione.

 

Insomma, c’è ancora molto da costruire, ma il senso di dove andiamo è chiaro. Bello sapere che l’Europa e l’Italia hanno un settore florido e competitivo e che è in pista sia per creare valore a livello locale sia per avere un impatto significativo a livello mondiale con nuove terapie e nuovi farmaci. 

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