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Perché abbiamo bisogno di aziende più grandi (accanto alle piccole)

A guardare alcune statistiche recenti l’Italia potrebbe considerarsi un paese abbastanza competitivo. Nel 2024, l’export italiano ha raggiunto un valore complessivo di 626 miliardi di euro, registrando una variazione nulla rispetto al 2023, ma con una crescita in volume del +1,4% grazie alla discesa dei prezzi all’export. Questo dato conferma la resilienza delle esportazioni italiane in un contesto di rallentamento globale. A livello europeo, l’Italia ha mantenuto una performance più dinamica rispetto a Germania (–1,4%) e Francia (+1,1%), consolidando la propria competitività sui mercati internazionali.

 

Eppure, nonostante ciò, i dati del Rapporto Annuale ISTAT 2025 ci mostrano che l’export italiano continua a essere fortemente concentrato. Le imprese esportatrici sono circa 137.000 (cioè, meno del 10% del totale), ma l’1% degli esportatori principali – ovvero poco più di 1.300 aziende – genera oltre il 55% del valore complessivo delle esportazioni. Di contro, le micro e piccole imprese, pur costituendo circa il 90% degli esportatori come numero, contribuiscono solo per il 16% al totale delle esportazioni, segnalando un potenziale ancora poco espresso. Questo perché esportare è complicato, e comporta costi fissi non piccoli, specialmente in un contesto complesso come quello attuale, e dunque è più probabile che siano aziende di medie o grandi dimensioni a potersi permettere la vendita sui mercati internazionali.

 

È però altrettanto evidente che una simile polarizzazione, per cui lo 0,01% delle aziende nazionali genera oltre la metà dell’export italiano, rappresenta un limite strutturale alla diffusione dei benefici dell’internazionalizzazione sull’intero sistema produttivo. Pensiamo a cosa potrebbe essere l’Italia in termini competitivi rispetto al resto del mondo se la crescita dimensionale delle imprese aiutasse ulteriormente la performance estera del nostro sistema produttivo.

 

Peraltro, la piccola dimensione di impresa ha riflessi importanti anche sul fronte interno. Sempre secondo i dati ISTAT, le imprese con meno di 10 addetti presentano livelli di produttività significativamente inferiori rispetto a quelle più grandi. Nella manifattura, la produttività media di una microimpresa è inferiore di circa il 60% rispetto a quella di una grande impresa (oltre 250 addetti). Nei servizi, il gap è addirittura più ampio, attestandosi attorno al 70%.

 

Questo non sarebbe un problema di per sé, se non che sembra esserci evidenza per cui negli ultimi anni a crescere maggiormente in termini dimensionali non siano (più) state le medio-grandi imprese, ma quelle medio-piccole, e questo trascina al ribasso la crescita della produttività complessiva del sistema paese, e con essa i livelli salariali.

 

Le ragioni del sottodimensionamento strutturale delle imprese italiane sono molteplici, e ampiamente analizzate nella letteratura economica. Le microimprese tendono ad avere una gestione familiare, scarsa capitalizzazione, limitata propensione all’innovazione e una bassa diffusione di tecnologie digitali. Inoltre, le nostre PMI faticano a implementare pratiche manageriali avanzate e a investire in capitale umano qualificato. Tutto questo le tiene ‘nane’ nel tempo, in un mondo dove la concorrenza si basa sempre di più su questi fattori. Anche il ricorso al credito e ai mercati dei capitali risulta più limitato, frenando la possibilità di espandere le attività o riorganizzare i processi produttivi in chiave efficiente.

 

A fronte di questa situazione, registriamo solo sei aziende italiane presenti nella lista delle prime 500 al mondo (la ‘Fortune Top 500’), di cui tre sono aziende di Stato (ENI, ENEL e Poste Italiane) e tre sono intermediari finanziari (Intesa, Unicredit. Generali).

 

Dobbiamo allora iniziare a chiederci quale modello di capitalismo vogliamo per il nostro paese. Non è certo una domanda nuova ma è più che mai necessaria perché il futuro dell'Italia (e dell'Europa) si gioca sul modello di sviluppo delle imprese e sulla loro capacità non solo di generare occupazione e PIL, ma soprattutto di essere equipaggiate per far fronte alle sfide della trasformazione digitale e della sostenibilità. Consapevoli in aggiunta che le nostre imprese devono competere in un campo di gioco globale che, contrariamente a quanto accaduto negli scorsi trent’anni, con ogni probabilità non sarà caratterizzato da un elevato tasso di fair play e da omogeneità delle regole del gioco.

 

I tratti genetici del nostro paese ci sono più che noti, con il modello di capitalismo italiano passato attraverso il capitalismo di Stato e il capitalismo delle famiglie imprenditoriali. Non dobbiamo cadere nell'errore di giudicare questo sistema non adeguato, perché ha permesso al nostro paese di fare il suo percorso e ha portato alla varietà straordinaria di aziende micro, piccole e medie che continuamente sorprendono, esportano, e attirano investitori esteri che continuano a fare shopping nel nostro paese. Ma dobbiamo chiederci in che direzione sviluppare questo modello.

 

Una prima risposta è che il capitalismo di Stato e familiare debba evolvere in un modello di capitalismo che colleghi senza ostacoli la ricchezza e il risparmio alla crescita. Al di là delle ‘etichette’, il tema non è tanto quello di sostituire ‘a prescindere’ le aziende di Stato e le aziende familiari, ma piuttosto quello di accettare una pluralità di modelli in competizione tra loro, capaci di dare spinta al nostro paese.

 

Per avere successo, tuttavia, questi modelli devono condividere alcuni tratti comuni, accettati e condivisi da tutti. Quali sono questi tratti comuni?

 

  • Una buona governance, che a prescindere dai requisiti formali contenga sempre parità di genere, diversità delle competenze, eccellenza delle conoscenze. L'esercizio della buona governance può partire anche dalle aziende più piccole, con buon senso ma con un senso di direzione netto che non può fare che bene se è inteso non come burocrazia e regole ma come sfida naturale.

 

  • La ricerca del talento, il desiderio di attrarre le buone risorse per valorizzarle e farle crescere, con la passione imprenditoriale e la creatività che contraddistingue il nostro paese.

 

  • La ricerca dell’impatto, il desiderio e l'obiettivo di trasformare l'ambiente circostante e contribuire al bene della propria comunità in rapporto alla propria dimensione.

 

  • L'esercizio della proprietà intesa non come possesso ma come responsabilità e autorevolezza. Ove la proprietà è destinata, se si ha successo, a perdere il significato di controllo e soprattutto di possesso.

 

Il modello di capitalismo e le imprese che abbracciano questi tratti caratteristici sono destinati ad avere successo. Il capitalismo di Stato, o quello a gestione strettamente familiare, può essere una fase di sviluppo, in alcuni momenti della traiettoria di un'impresa, ma è destinato a scomparire se quell'impresa ha davvero successo. Il modello di capitalismo che ci fa male è invece quello che non accetta queste sfide e pone limiti, imponendo il possesso, frenando la crescita, facendo scappare i talenti dal paese.

 

Come favorire allora questa evoluzione del nostro modello? La prima risposta sicuramente è quella di aprire il capitale agli investitori istituzionali, scelti in base al profilo, all'attitudine e a quanto possono dare e ricevere. Va superato il pregiudizio italiano storico verso "i fondi" e ne va colta la capacità moltiplicativa, ricordando che il mondo degli investitori istituzionali è il portato della grande quantità di risparmio disponibile, che è alla ricerca di rendimenti a lungo termine capaci di reggere il nostro sistema assicurativo, previdenziale e di welfare.

 

La seconda soluzione è quella di usare il mercato di borsa, che rappresenta sempre la piattaforma più forte di propulsione alla crescita. Credendoci sul serio, e non per il puro tatticismo di "usare" la borsa per valorizzare il proprio investimento e poi uscire.

 

La terza è quella di favorire il ricambio generazionale degli azionisti. Un movimento che passa attraverso tante strade che vanno dall'eco-sistema delle start-up, a quello più sperimentale dei search fund che aiutano aspiranti imprenditori a comprarsi un'azienda che non avrebbe successori.

 

L'impegno che il nostro paese ha davanti a sé non è solo quello di trovare un'etichetta al nuovo modello di capitalismo. E se proprio dobbiamo provarci, potremmo proporre quella del "capitalismo diffuso" che supera quella del capitalismo di Stato o familiare a cui siamo stati abituati. Di certo, però, al di là delle etichette, non possiamo accettare che la proprietà intesa come possesso non abbracci la sfida della buona governance, del talento, dell'impatto e dell'autorevolezza. Altrimenti commenteremo nei prossimi anni solo storie di aziende eccellenti comprate da investitori e imprenditori esteri, e nella lista delle prime 500 aziende mondiali ne vedremo ancora meno delle sei che abbiamo oggi.

 

La questione della dimensione d’impresa non è dunque solo un dettaglio tecnico, ma un nodo cruciale per il rilancio della produttività, e dunque la competitività, italiana. Senza un deciso cambio di passo che favorisca la crescita, la trasformazione e il rafforzamento delle imprese più piccole, il rischio è quello di rimanere intrappolati in un’economia a bassa produttività, bassa innovazione e bassi salari.

 

Superare il “nanismo produttivo” è una sfida culturale prima ancora che economica. Ma è anche la chiave per dare un futuro più competitivo e dinamico al sistema produttivo italiano.

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