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- 2 dic 2025
- 4,5 giorni
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”CompLab” è il blog su competitività e crescita curato da Carlo Altomonte
Nel 2023 Barry Eichengreen, economista americano, ha scritto che la globalizzazione “è stata dichiarata morta più volte di quanto non si possa contare.” Dal Financial Times all’Economist, fino al Fondo Monetario Internazionale, il tema è diventato un classico: ad ogni evento di crisi — dal 2008 al Covid, fino alla guerra in Ucraina o all’elezione di Trump — si riaccende il dibattito sul presunto indietreggiamento dell’integrazione economica mondiale.
Eppure, la realtà racconta una storia diversa. Sicuramente è terminata la crescita tumultuosa della globalizzazione sperimentata dalla fine degli anni ’90 al 2008, anni in cui il rapporto tra esportazioni e produzione è sostanzialmente raddoppiato, da circa il 15% al 30% del PIL mondiale. Ma dal 2008 in poi questo indicatore non è mai sceso sotto il 26%, e a fine 2024 è vicino ai massimi, nonostante la crisi finanziaria, la pandemia, la crisi ucraina.
È per questo che l’analisi economica fatta seriamente preferisce parlare di un rallentamento della globalizzazione (o slow-balization), piuttosto che di de-globalizzazione (si veda ad esempio questo paper di Italo Colantone).
Ovviamente, questo non vuol dire che dietro il dato aggregato non avvenga in realtà una riconfigurazione dei flussi commerciali internazionali, in particolare a causa della frammentazione geo-politica, un fenomeno che, quello sì, è in crescita negli ultimi anni.
Il Fondo Monetario Internazionale, nel recente studio di Gita Gopinath e colleghi (Changing Global Linkages: A New Cold War?, 2024), mostra che dopo l’invasione russa dell’Ucraina si è osservata una riduzione del 12% nei flussi commerciali e del 20% negli investimenti diretti esteri (FDI) tra Paesi appartenenti a blocchi geopoliticamente distanti, rispetto agli scambi all’interno dello stesso blocco.
Tuttavia, lo stesso studio sottolinea che questa frammentazione rimane modesta rispetto alla Guerra Fredda, e che il commercio globale nel suo complesso non si è contratto. Questo perché a fronte della contrazione dei flussi tra blocchi (US-Cina da un lato, e EU-Russia dall’altro), si assiste a una riconfigurazione dei flussi all’interno dei blocchi e, soprattutto, verso una nuova categoria di Paesi: i cosiddetti “connector countries.”
Durante la Guerra Fredda, queste economie cosiddette “non allineate” erano marginali per i sistemi di produzione internazionali. Oggi invece costituiscono il tessuto connettivo della nuova globalizzazione che si riconfigura a causa dei mutamenti geo-politici in atto. Come mostrano Gopinath e colleghi, i flussi commerciali e di investimento che un tempo passavano direttamente tra Stati Uniti e Cina vengono sempre più ri-direzionati attraverso Paesi terzi, in particolare verso paesi come Vietnam, Messico, Tailandia, Indonesia. Tutti paesi in cui, tra il 2018 e il 2023, la Cina ha esportato di più (e a volte anche investito di più), e dai quali contemporaneamente gli USA hanno importato maggiormente.
Questi Paesi “ponte” beneficiano della competizione geopolitica: ricevono investimenti sia da imprese occidentali che da aziende cinesi che cercano di aggirare le barriere commerciali. Il risultato? Una catena del valore più lunga, più articolata e meno leggibile, ma non necessariamente più fragile. Anzi, è proprio questo effetto di riconfigurazione dei flussi che sta preservando la resilienza complessiva del commercio mondiale, anche in presenza di tensioni politiche e restrizioni normative.
Un altro aspetto interessante riguarda l’impatto sulla globalizzazione del crescente disaccopiamento tra Cina e Stati Uniti, ossia i due paesi responsabili di uno dei volumi di commercio bilaterale in assoluto tra i più grandi al mondo, almeno sino al 2024 (circa 600 miliardi di dollari tra i due flussi). Se ipotizziamo che per ragioni diverse questi due paesi stiano perseguendo politiche di disaccoppiamento tra loro, e comunque abbastanza autonome rispetto all’integrazione delle catene del valore globale, è ragionevole chiedersi cosa succedde alla globalizzazione se li escludiamo dai dati. Questo esercizio è riportato nel grafico sottostante, in cui la linea nera continua mostra la metrica della globalizzazione a livello mondiale commentata in precedenza. La linea tratteggiata immediatamente sopra mostra la stessa linea con esclusione della Cina: come si può notare, negli ultimi anni la differenza tra le due linee aumenta, segnale che la Cina si sta progressivamente chiudendo rispetto al commercio internazionale.
Infine, la linea azzurra tratteggiata in alto nel grafico esclude dal computo del rapporto esportazioni/PIL sia Cina che Stati Uniti, e non mostra alcun rallentamento. In altre parole, quello che emerge è che al di fuori della dinamica sino-americana gli scambi internazionali tra paesi hanno continuato a crescere con sorprendente regolarità, e potrebbe continuare a farlo se non interverrano ulteriori rotture nei rapporti geo-politici tra Stati, che tuttavia al momento non sono all’orizzonte.
Fonte: elaborazione dell’autore su dati World Bank
Ciò suggerisce che il sistema globale rimane fortemente interconnesso, ma con centri di gravità che si stanno spostando. La crescita del commercio intra-asiatico, l’espansione dei flussi tra Europa e paesi emergenti e l’ascesa di nuovi hub produttivi come il Vietnam, l’India o il Messico testimoniano che la globalizzazione non sta scomparendo, ma sta cambiando forma e direzione.
Questo ci porta alla conclusione che non stiamo assistendo a una deglobalizzazione, ma a una globalizzazione ristrutturata. Le catene del valore globali si accorciano o si spostano verso paesi “amici” (friend-shoring) in alcuni settori strategici (tecnologia, energia), ma si allungano in altri grazie ai connector countries. Le imprese non rinunciano all’apertura, la rendono semplicemente più flessibile e geopoliticamente consapevole, aiutate da uno stock di investimenti diretti esteri delle multinazionali che a livello globale nel 2024 ha superato i 50 mila miliardi di dollari (erano 2.500 miliardi all’inizio degli anni ’90).
Guardando avanti, è dunque possibile che la globalizzazione si muoverà lungo tre direttrici:
Il futuro della globalizzazione non sarà dunque un ritorno agli anni ’90, ma nemmeno un mondo di muri e autarchie. Sarà un sistema multipolare di interconnessioni parziali, dove le reti si intrecciano parzialmente, ma non si fondono. Non più una corsa all’apertura illimitata, ma una ricerca di equilibrio tra interdipendenza e sicurezza. È la fase adulta della globalizzazione: meno ingenua, più consapevole.