
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 12 Mag 2025
- 3 giorni
- Class
- Inglese
A journey through the digital revolution to learn how to capitalize on these enhancing technologies to gain competitive advantage in existing and new markets.
L’emergenza Covid-19 ha enfatizzato un fenomeno che era già sotto osservazione. Come ben sottolineato da un recente contributo pubblicato da Gianluca Salviotti su questo sito, non c’è trasformazione solo con la digitalizzazione e soprattutto con la digitalizzazione emergenziale di questo periodo, ma servono visione strategica, azioni organizzative su processi, persone e meccanismi operativi, su strutture e processi IT. In generale, ancora prima dell’emergenza, molte riflessioni erano emerse sul fatto che gli investimenti e i progetti digitali non producono risultati aziendali reali e duraturi senza una visione sistemica che tenga in considerazione molti di quegli elementi che sono sempre stati i «basic del management d’azienda»: da un lato una solida strategia aziendale e tecnologica, tanto process reengineering/optimization e change management, dall’altro piani di investimento/finanziamento ben strutturati. E per molte precedenti generazioni tecnologiche (per esempio la diffusione di sistemi ERP o di CRM o di Business Intelligence/Data Analytics), gli studi e le esperienze aziendali avevano già sottolineato la necessità di implementare la tecnologia con forte visione strategica, organizzativa e tecnologica.
In tempi recenti prestigiose riviste internazionali come Harvard Business Review, MIT Sloan Management Review, MIT Technology Review, hanno pubblicato contributi critici sui reali risultati digitali ottenuti oppure prudenziali nei confronti di molte delle nuove tecnologie (per esempio gli impatti dell’AI sull’etica, della robotica avanzata sull’occupazione, della sensoristica fissa e mobile sulla privacy).
Anche l’osservazione dei risultati digitali ottenuti da molte aziende italiane, fa sorgere il medesimo dubbio: in questa fase di digitalizzazione «affannosa» o oggi «emergenziale», forse ci siamo dimenticati che i fondamenti storici del management aziendale (e dell’IT management) contano ancora!
Il modello di innovazione delle aziende è costituito da unità organizzative (dedicate e no), da comitati o team trasversali, da ruoli e accountability diverse (con gli acronimi di CXO più incredibili!), da processi di innovation management (interni o di open innovation, strutturati o agili, ISO 56000 compliant), da competenze, budget, misure e KPI ad hoc, e ha un peso rilevante nel generare risultati reali e duraturi anche nella trasformazione digitale.
Certamente negli ultimi anni i ritmi di innovazione sono diventati più intensi; alcuni metodi nuovi, o rivitalizzati, possono essere indubbiamente utili facilitatori (si pensi a design thinking, service design, agile project, co-creation, test&learn application ecc.). Tuttavia, questi metodi, unitamente alle nuove tecnologie, finora non hanno garantito il successo generale della trasformazione digitale in molti dei suoi ambiti. E non è solo per un problema di mancanza di skill o di compliance. Di quante esperienze digitali si sente parlare a convegni o seminari e poco tempo dopo non si ritrovano più in azienda, rimasti in fase di pilot o di sperimentazione, «dormienti» in qualche sistema IT interno o nelle slide che li hanno sovraesposti a livello mediatico?
La scalabilità dei progetti digitali è certamente una delle maggiori sfide e criticità: è necessario dotarsi delle competenze per scalare, valutare nei business case se è economicamente conveniente farlo, ma anche sperimentare un sistema di servizio e di esperienza digitale e non solo le pure tecnologie digitali. Anche l’ispirazione ai casi di innovazione dei big player del web è stata riportata a un sano realismo: quanta di quella esperienza è realmente replicabile nelle medie imprese tradizionali (non digital native) che si stanno digitalizzando? Quanto i loro modelli organizzativi (oltre che tecnologici) di gestione e sfruttamento dei loro dati nativamente digitali, possano realmente ispirare i modelli di digital enterprise o di data-driven organization delle imprese italiane? Infine, non si può non notare che tutte le ricerche fatte negli ultimi anni sulla digitalizzazione dipingono ancora una situazione di medio-bassa adozione delle nuove tecnologie digitali, mentre tutti i manager intervistati a ogni livello spostano sempre nel futuro, a 3 o 5 anni, la rilevanza e l’adozione di queste tecnologie.
Molti esempi potrebbero essere fatti (nell’ambito della data analytics, della multicanalità digitale, dell’IoT, della realtà virtuale e aumentata, dell’intelligenza artificiale ecc.), esempi che possono essere utili per suggerire un cambiamento digitale «saggio, usuale e sostenibile», più spesso incrementale che disruptive nelle nostre imprese, riconsiderando anche i fondamenti del management aziendale. Eccone alcuni. Recenti articoli di Harvard Business Review sottolineano come la diffusione delle varie analytics e la costruzione di data-driven organization, non dipendano dalle nuove tecnologie disponibili, dai nuovi dati da analizzare e dalle skill da reperire, ma, ancora una volta, come già in passato, dalle unità organizzative, dai processi e dai ruoli da definire chiaramente tra i vari specialisti della data analysis (non solo i data scientist) e i decision maker aziendali che devono utilizzare i risultati delle analisi.
Di nuovo emergono due elementi evergreen della data analysis:
Nelle imprese non digital native si scopre inoltre che, superata la fase di sperimentazione di progetti fondati sull’AI, questi spesso restano applicazioni di nicchia, isolate e non integrate con il resto dei sistemi aziendali e non si trasformano in prodotti o servizi che incidono realmente sul mercato. Oggi si scopre che gli algoritmi di AI pongono problematiche sul piano etico, perché realizzati da programmatori che possono inserire distorsioni sia nella costruzione degli algoritmi, sia nell’istruzione e nell’apprendimento degli stessi (derivanti da principi, valori, convinzioni, priorità, sensibilità molto diversi tra di loro). Inoltre, l’AI deve fare i conti con il numero di eccezioni che ancora non sa gestire e quindi con gli esempi che le sono stati forniti per allenare e istruire gli algoritmi di machine learning (siano esse serie storiche di vendita, casistiche di richieste a un contact center o immagini e scenari da riconoscere). Nel management d’azienda l’AI deve fare i conti con l’esperienza umana, con l’accountability aziendale di una decisione, con alcune sensibilità decisionali che non sono facilmente codificabili nel software. In un ambito diverso come l’e-commerce e la multicanalità, le imprese tradizionali (non pure online) fanno ancora molta fatica nel calcolare i reali risultati aziendali, affidandosi più a indici e misure prevalentemente tecniche, mentre si discute molto di come portare l’esperienza di acquisto dell’online nel mondo fisico. Inoltre molti marketing manager e digital manager hanno compreso quanto sia difficile scalare le “top seven” delle mobile app che ogni individuo utilizza maggiormente sui suoi dispositivi mobili; molte di queste presentano ancora numeri molto bassi di download e molto alti di cancellazione, valutazioni basse e recensioni negative, con danni anche di reputazione aziendale non indifferenti, da calcolare. Infine gli smart store, o punti di vendita fisici con alto tasso di digitalizzazione. Questi interessano un’ampia gamma di tecnologie digitali e si sperimentano in molti settori merceologici (grocery e fashion, in primis), ma il loro successo dipende ancora molto da alcune decisioni che potremmo definire «classiche»: capacità di misurare i risultati netti (spesso multicanale), decisioni di localizzazione del punto vendita e della sua superficie ideale, capacità di mixare bene l’assortimento, decisioni di allargamento dei servizi (per esempio la ristorazione nei supermercati, i pick-up point, i drive-through), capacità di ascolto del consumatore e della sua percezione delle nuove tecnologie in store e, infine, capacità di scalare il formato: pochi smart store di un’insegna non cambiano né la customer experience, né l’efficienza operativa del retailer, e tantomeno generano l’interesse dell’industria di marca a collaborare per sostenerne la crescita.