Sotto la lente

La sostenibilità ha bisogno del marketing?

Il 13 dicembre 2023 si è conclusa la COP28, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che, se per alcuni ha rappresentato un grande passo in avanti nella transition away dai combustibili fossili, ha per la maggior parte confermato la convinzione che ci troviamo sulla strada del non ritorno. L’immaginario è quello tipico dell’Armageddon: orologi dell’evoluzione prossimi alla mezzanotte, game over totale.

 

Per quanto il dato sia inconfutabile e reale, puntare il dito verso l’apocalisse imminente rischia di rendere l’umanità totalmente inerte, ottundendone la sensibilità e annullando, di fatto, il moto di sostenibilità. Ipnotizzati dal perdurare della cantilena, rischiamo di iniziare a non fare. Per questo quando pensiamo alla sostenibilità dobbiamo smettere di vederla come una questione di massimi sistemi, ma dobbiamo accettare che si tratti di qualcosa che implica lo sforzo, oggettivo e quotidiano, di tutti, un cambiamento di habitus mentale che investe chiunque. 

 

Partendo da questa tesi, anche il marketing deve stringere un patto con la «sostenibilità insostenibile», per arrivare a costruire e proporre un discorso «digeribile». Ogni giorno veniamo raggiunti da una pletora di messaggi che invocano l’adozione di comportamenti salvifici, per noi e per il mondo. Il problema è serio, e su questo non c’è dubbio. Ma il problema riguarda anche il «colore» dei messaggi che vengono pensati e generati, e che invariabilmente ci raggiungono, stimolandoci. Tutti questi messaggi, infatti, portano avanti una visione molto simile: ultra-pessimista, di sacrificio, invariabilmente improntata su «paradigmi del non» («non fare questo», «evitare quell’altro» ecc.).

 

Dati ed evidenze quotidiane alla mano, le strategie sinora adottate per spingere la sostenibilità e farne un locus di attenzione e d’impegno (civile, sociale, ma anche di business, a livello di «acquisto etico») non sono riuscite ad arginare l’approssimarsi del punto di non ritorno. Il catalogo degli esempi di fallimento dell’innovazione sostenibile va infoltendosi, e si lega a mancanze che viste da fuori fanno stupore: di performance (il prodotto «normale» era più performante), di appeal (il «vecchio» era più gradevole, addirittura più sexy), o di efficienza (la modifica «sostenibile» rende la fruizione più difficoltosa, meno intuitiva o qualitativamente peggiore). 

 

Pensare di cambiare il comportamento delle persone offrendo prodotti meno efficaci, meno utili e meno sexy è di per sé un’impresa titanica; pensare di farlo senza che le persone ne abbiano un vantaggio è quasi impossibile. Sappiamo bene che sono le ricompense a innescare le abitudini. Ricevere una ricompensa, o addirittura la promessa di una ricompensa, provoca il rilascio di dopamina. E la gratificazione crea abitudine.

 

Se ragioniamo con un semplice modello di come si cambia il comportamento umano, possiamo identificare quattro fasi basilari.

 

  • Make it understood. Sappiamo tutti che le condizioni in cui versa il pianeta sono insostenibili. Sappiamo anche, per esperienza, che fermarsi a questa consapevolezza raramente modifica il comportamento (dire che «fumare fa male» non ha mai spento una sigaretta). Eppure, molte imprese e altrettanti esperti di public affairs continuano a sostenere che la conoscenza sia in grado di per sé di modificare i comportamenti.
  • Make it easy. Purtroppo, quando si parla di sostenibilità, la maggior parte degli esperti ha affrontato il tema in un modo talmente specialistico da far sì che le persone, non riuscendo più a seguire il filo del discorso, finissero per ottenere un’esperienza tutt’altro che semplice.
  • Make it a reward. Su questo piano, l’attuale discorso sulla sostenibilità registra un numero altissimo e allargato di fallimenti (basti ricordare come i messaggi che invitano a limitare il consumo di energia elettrica per rallentare lo scioglimento dei ghiacciai facciano decisamente meno breccia di altri in cui l’invito a spegnere la luce sia direttamente collegato a un risparmio in bolletta…).
  • Make it a habit. Costruire un’abitudine sostenibile, in conseguenza di tutto quel che sinora si è scritto e argomentato, non è cosa facile, né immediata, né a buon mercato a livello energetico. Servono sforzi (frazionati in micro-cambiamenti), serve tempo, serve energia.

 

Ecco perché pensare a un ponte tra sostenibilità e marketing che traghetti nella prima il meglio del secondo può contribuire all’impresa. Allora, se la nostra è l’era della responsabilità, il nuovo marketing sarà anch’esso un marketing della responsabilità.

 

Con questa espressione intendiamo un marketing che poggia su un modello che, avendo fatto tesoro di schemi e nozioni finora presentate, se ne serve nella forma di un mix di fattori applicati alla sostenibilità, ovvero di un sustainability mix che comprende quattro variabili e che incarna una proposta di tool cui eventuali, futuri (e necessari) marketer della responsabilità potranno ricorrere.

 

  • Positività. Significa improntare messaggi e strategie non al presentare un pericolo sempre più grave e imminente, ma all’altra faccia (esatta e complementare) della medaglia, proponendo un’opportunità che venga percepita dal target come desiderabile.

 

  • Personalizzazione. Indica un atto di segmentazione, non solo in senso socio-demografico, ma anche psicografico. Si deve cioè sviluppare una sensibilità tale da arrivare a capire che il pubblico non è un unicum, ma una galassia popolata da tribù con priorità differenti.

 

  • Pragmatismo. Occorre dimostrare alle persone (sia consumatori sia stakeholder) che il cambiamento che viene loro richiesto darà un risultato tangibile, se vogliamo evitare che il canone di «responsabilità» cui sono sottoposte perda di aderenza con la realtà. Per decidere di cambiare, devo prima sapere che questo cambiamento creerà un ritorno misurabile.

 

  • Permeabilità. Richiede vulnerabilità, un’intelligenza che è quella di mostrarsi al pubblico per quel che sì è, dando luogo a una fotografia talvolta impietosa, ma palesando anche una volontà di crescere che il pubblico recepirà come impegno e che fungerà da pungolo, socialmente e internamente.


Per un marketing della responsabilità così pensato, e declinato su un sustainability mix come quello appena esposto, cambia tanto lo scopo quanto il registro. Questo perché, al netto del modello, dei presupposti e del background olistico sul quale poggia, non si tratta di un’attività mirata a comunicare un messaggio secondo le modalità ad oggi note e diffuse. 

 

Lo scarto rispetto allo storytelling e allo storydoing, in questo senso, risulta ampio e notevole, specialmente nell’accento posto sulla capacità generativa nel pubblico di un senso di «felicità» tale da incoraggiare gli individui stessi non solo ad agire (liberandosi dalle pastoie di comunicazioni doom & gloom, apocalittiche, come tali ottundenti o generanti indifferenza), ma a «respirare» la storia, favorendo così un senso di profonda connessione con la narrazione, di introiezione dei contenuti per riconosciuta prossimità rispetto al proprio quotidiano, e di qui di attivazione in vista di un desiderio profondo e radicato di adoperarsi per un cambiamento che è positivo perché se ne palesa non solo l’importanza, ma l’impatto immediato, personale e accrescitivo rispetto alla propria vita. 

 

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