Sotto la lente

Perché la povertà è (anche) un tema di management

La prima volta che lo si guarda il quadro è a tinte forti. I dati sulla distribuzione della ricchezza mondiale e sulla povertà sono drammatici, sia in prospettiva statica sia dinamica. I dati Oxfam ci dicono che la ricchezza del primo 1 per cento della popolazione mondiale vale il 43 per cento di tutti gli asset finanziari mondiali. Non solo: dall’inizio del decennio la ricchezza dei primi cinque miliardari è più che raddoppiata. Se continuerà a crescere allo stesso ritmo, tra dieci anni avremo il primo trilionario nella storia dell’umanità. Allo stesso tempo, circa 5 miliardi di persone hanno visto crollare la loro ricchezza. Per ridurre la povertà globale sotto l’1 per cento, ci vorrebbero 230 anni. L’Italia non fa grande eccezione. Tra i paesi OCSE si colloca ai primi posti per disuguaglianza, con una distribuzione di ricchezza che concentra sul primo 20 per cento della popolazione più dei due terzi della ricchezza nazionale, e sull’ultimo 60 per cento il solo 13,5 per cento della ricchezza. Così l’1 per cento più ricco della popolazione ha un patrimonio di 84 volte superiore a quello complessivo del 20 per cento più povero.  

Un approfondimento sulla povertà. Ben 711 milioni di persone, nel mondo, vivono con meno di 1,9 dollari di stipendio giornaliero, una condizione definita di estrema povertà, e in crescita dal Covid. Si tratta del 9 per cento della popolazione mondiale. Con questi numeri, e con il peggioramento degli ultimi anni, i forecast prevedono che difficilmente entro il 2030 si raggiungerà il primo obiettivo di sviluppo delle Nazioni Unite, ossia la scomparsa della povertà. La situazione è difficile anche in Italia: vi sono quasi 12 milioni di persone a rischio povertà (1 su 5) e quasi 6 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta.  

Nel mondo c’è dunque troppa disuguaglianza e troppa povertà. È un dato, non un’opinione. A livello macro ci si è già mossi. Economisti di fama mondiale, tra i quali Piketty e Ghosh, hanno invocato a gran voce il potenziamento degli obiettivi delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale di riduzione delle disuguaglianze, chiedendo metriche precise e target ambiziosi. Il mondo delle imprese pare invece meno impegnato su questo tema, nonostante il rapporto Oxfam le chiami in causa. Evidenziando come nel biennio 2021-2022, a fronte di un incremento di disuguaglianza e povertà, le grandi corporation abbiano registrato un aumento dell’89 per cento dei profitti, altamente concentrati nelle grandissime imprese e all’82 per cento distribuiti sotto forma di dividendi e buyback azionari. Il tutto mentre i salari faticano a tenere il passo dell’inflazione. Come a dire che la distribuzione del valore generato dalle aziende è una delle determinanti della situazione di disuguaglianza e di povertà su scala globale e locale. 

Le imprese non possono rimanere immobili di fronte a questa situazione. Essa va considerata come un rischio strategico e operativo, e va affrontata all’interno dei sistemi di management continuativi aziendali. L’attenzione alla povertà deve passare, per le aziende, da una prospettiva di charity a una di gestione ordinaria. E la funzione AFC, il Finance, nella prospettiva che «si gestisce ciò che si misura», deve farsi promotore di questo cambiamento. Lungo tre direttrici. 

In primo luogo ridisegnando le competenze interne alla funzione AFC, per sviluppare misure di distribuzione del valore, non solo di generazione dello stesso. I sistemi di misurazione delle prestazioni aziendali sono disegnati pensando alla generazione di valore, come se la distribuzione dello stesso fosse una fase successiva e di mero interesse degli azionisti. I dati mostrati prima dicono che non è così. Bisogna misurare seriamente anche la distribuzione del valore. Questa va misurata non solo in modo semplificato, ossia tramite la percentuale di valore aggiunto distribuita al personale, bensì applicando la stessa serietà di misurazione che si adotta nella prospettiva dell’azionista. La distribuzione va quindi misurata pro-capite, per cercare di capire se il compenso pro-capite sta crescendo o meno, e va messa in relazione con il capitale investito, che per le persone significa la dotazione intellettuale che portano, funzione sia della loro formazione sia della loro esperienza lavorativa. Va compresa l’intera distribuzione del valore, mettendo in relazione lo stipendio massimo aziendale con quello minimo e quello mediano, dandosi un valore limite di massima distanza tra questi. Inoltre bisogna monitorarne l’andamento. Ciò significa verificare che la distribuzione di valore pro-capite abbia un incremento percentuale nel tempo in linea con quanto valore viene distribuito ad altri stakeholder e shareholder, aggiustandolo in termini reali per l’inflazione, e comparando il costo pro-capite al valore aggiunto generato pro-capite. Da ultimo bisogna creare conoscenza e competenza sulla disponibilità di dati esterni, per valorizzarli. I dati locali sui costi di housing, trasporti e cibo, in genere disponibili tramite gli enti statistici nazionali, vanno usati per comprendere l’adeguatezza della retribuzione offerta rispetto al costo della vita locale. Sono per esempio le politiche retributive dei giovani in linea con il costo di affitto di un appartamento nella città di residenza? A Milano il costo di affitto vale quasi il 70 per cento dello stipendio di un giovane lavoratore. In caso l’azienda sia multinazionale, serve sia maggiore capacità di misurazione sia maggiore conoscenza dei diversi database disponibili. Bisogna qui partire da quali sono i gap di misurazione riconoscibili, sapendo che si possono trovare vari database. Tra questi: i dati specifici di paese dalla World Bank, stime di area geografica dalla Global Living Wage Coalition, dati di settore con stime specifiche per i diversi paesi da True Price, e altri dati validati dall’Impact Institute nel Global Impact Database. 

In secondo luogo bisogna incrementare l’ampiezza di attenzione tramite la misurazione della povertà all’interno del sistema di reporting e controllo aziendale. Nelle dashboard aziendali, segmentate per cash generating unit, occorre inserire le misure riportate nel punto precedente, articolate per BU e per geografia. Inoltre è necessario confrontarle con una vision e un target ambizioso, per chiedere a tutti i manager responsabili di business un ruolo nel contribuire all’obiettivo SDG 1, «No Poverty by 2030», per esempio eliminando il fenomeno del compenso al limite della soglia di povertà, e considerando l’adeguatezza della retribuzione di tutti i lavoratori rispetto ai living wage e alle soglie di povertà. Informazioni oggi disponibili in tutti i paesi. 

Da ultimo bisogna incrementare l’ampiezza di responsabilità dell’impresa, tramite la presa in carico della situazione di povertà lungo tutta la propria supply chain. L’impresa non è un’isola, ma un nodo di una rete. E le imprese più responsabili e innovative devono assumersi un ruolo e una responsabilità di fronte agli eventi globali. I CFO devono dunque misurare la distribuzione del valore e l’adeguatezza dei compensi lungo tutta la supply chain, in qualsiasi luogo essa sia e in qualsiasi forma di impresa si manifesti. Questo oggi avviene in pochi casi. Pare che solo lo 0,4 per cento delle oltre 1.600 più grandi e influenti aziende del mondo si sia pubblicamente impegnato a riconoscere ai propri lavoratori un salario dignitoso e a promuovere lo stesso impegno tra i propri fornitori per assicurare che lo stesso trattamento sia garantito anche ai lavoratori lungo la filiera. Bisogna dunque che la misurazione financial stimoli l’impresa a darsi target ambiziosi di filiera, impegnandosi ad avere il 100 per cento dei lavoratori della supply chain adeguatamente pagati sopra i living wage. Di più e da ultimo: bisogna iniziare a misurare, comunicare e gestire il valore generato anche per gli stakeholder non azionisti. In termini finanziari, e rapportandolo al valore per gli azionisti. Solo comparando cassa vs cassa, valore vs valore, con numeri semplici e comprensibili, sarà possibile per le imprese avere un ruolo contributivo nella sfida più grande che il mondo ha davanti: la povertà. 

SHARE SU