
Per un’agricoltura che rigeneri il suolo e l’economia
“La libellula” è un blog su natura e impresa, curato da Sylvie Goulard

“Polvere tu sei e in polvere tornerai” (Genesi, 3,18-19). È nel momento in cui Adamo ed Eva hanno mangiato il frutto proibito e vengono cacciati dal Paradiso terrestre che Dio menziona sia l’obbligo, per Adamo, di coltivare la terra per guadagnarsi il pane, sia il suo ritorno finale all’argilla da cui è stato tratto. La terra nutrice accoglie l’intero ciclo della vita.
Troppo spesso abbiamo perso il legame con la natura. Se i popoli indigeni continuano a chiamarla Madre Terra, nelle città dei Paesi sviluppati tendiamo a dimenticare i servizi che ci rende. Eppure, è la terra che fornisce i beni destinati all’alimentazione o le fibre necessarie all’industria tessile. È la terra che incanta gli artisti e offre agli abitanti delle città la possibilità di rigenerarsi. È la terra che ci aiuta a lottare contro il cambiamento climatico, assorbendo il carbonio che emettiamo. I suoli, gli oceani, gli alberi contribuiscono così alla regolazione delle temperature, mentre la vegetazione permette di contrastare l’erosione e la siccità.
Questi equilibri fragili sono minacciati. Foreste aggredite dal calore e suoli esausti non possono assorbire tanto carbonio quanto quello che assorbirebbero se fossero in buona salute. Se vogliamo preservare il nostro ambiente, anche solo per continuare a beneficiare di queste risorse, è tempo di ripensare i nostri modelli di produzione e consumo. Non si tratta solo di una questione ecologica o di salute pubblica, è prima di tutto una questione economica: le imprese hanno interesse a farlo per salvaguardare le loro catene del valore, affrontare meglio i rischi fisici, finanziari e reputazionali e, in definitiva, perpetuare la loro attività.
Dalla Rivoluzione industriale, e ancor più nell’ultimo secolo, il nostro modello economico ha dimenticato la circolarità del vivente. Preleviamo risorse dalla natura ben oltre ciò che può offrire. Quando consumiamo, spesso sprechiamo (ad esempio, un terzo del cibo tra la fattoria e il piatto). Ripariamo sempre meno, gettiamo oggetti e imballaggi creando montagne di rifiuti. Risultato: la plastica si accumula sulle spiagge, negli oceani e persino nei nostri corpi. Il ciclo della vita non è più rispettato.
Un altro modello è possibile, un modello in cui – come in natura – tutto è connesso e nulla si perde: un modello di rigenerazione che, da solo, può garantire prospettive durature. È uno dei temi affrontati dallo studio appena pubblicato da SDA Bocconi e da 2050Now Lamaison, una piattaforma di imprese francesi presenti nel mondo, intitolato Regenerating nature means regenerating the economy.
Come definire l’agricoltura rigenerativa? Lo studio rileva che, al momento, non esiste una definizione di legge né una visione univoca. Il presidente di Illy Caffè, Andrea Illy, ha creato la Regenerative Society Foundation per “affrontare in modo sistemico i sistemi complessi, interagenti tra loro, che sono l’ambiente, il clima, la società, la nutrizione, la salute, lo stile di vita” e propone questa definizione di rigenerazione: “l’insieme dei processi per mantenere il vivente in buona salute attraverso la preservazione, il rinnovamento e la restaurazione degli asset naturali.” Applicata a tutti gli organismi viventi di un ecosistema, dai microrganismi agli esseri umani, la rigenerazione si basa sulle 4 “R” di un ciclo completo di economia circolare: ridurre, riutilizzare, riciclare, rigenerare.
Uno studio della Rockefeller Foundation del giugno 2024, Financing for regenerative agriculture, si sforza di presentare una sintesi dei criteri distintivi emersi nel mondo. Nella maggior parte dei casi questi criteri si sovrappongono, pur non essendo identici: alcuni includono l’equità sociale, altri richiedono la limitazione degli input chimici.

Il ricercatore francese Philippe Grandcolas (CNRS) descrive l’agricoltura rigenerativa come “pratiche agricole con meno esternalità negative, che utilizzano meno input, sono più rispettose della diversità dei paesaggi e integrano la biodiversità.” Lanciando un monito sulla proliferazione di etichette e riferimenti non standardizzati (per esempio in Francia la Haute Qualité Environnementale), invita a verificare che le pratiche presentate come rigenerative includano lo standard biologico, vietando in particolare l’uso di pesticidi e osservando gli input o la conversione degli ambienti. Per questo preferisce il termine scientifico “agroecologia” a quello di agricoltura rigenerativa.
È interessante che anche un gruppo del lusso come LVMH si interessi al tema. La posta in gioco è garantire la produzione, in un contesto in cui l’agricoltura intensiva porta all’impoverimento dei suoli, all’abuso di pesticidi e alla scomparsa degli impollinatori: un modello che, in senso letterale, non è “sostenibile.”
Per LVMH, “l’agricoltura rigenerativa si definisce come un’agricoltura in grado di rigenerare la salute dei suoli e le funzioni degli ecosistemi (biodiversità, ciclo dell’acqua), garantendo una stabilità socio-economica per le parti interessate (agricoltori, comunità) e la produzione di materie prime di qualità.” Per approvvigionarsi delle materie prime indispensabili alla sua attività, il gruppo ha iniziato a implementare pratiche di agricoltura rigenerativa per la produzione di uva per lo Champagne e altri distillati, di cotone, lane e pelle per la moda e la pelletteria, oltre che di palma, barbabietola e ingredienti iconici per Profumi e Cosmetici.
Lo sforzo di rigenerazione non si limita all’agricoltura. Nelle foreste si sviluppano nuove pratiche, come la rinuncia ai tagli a raso, in cui un’intera area viene ripulita in un solo colpo da macchinari pesanti che danneggiano i suoli. L’uso di veicoli più leggeri, o persino di cavalli da tiro, la pratica di tagli sotto copertura continua, il mantenimento di alberi morti o la preservazione di stagni sono altrettanti modi per lasciare che la foresta si rigeneri e sia più sana. In questo modo svolge meglio il suo ruolo di pozzo di carbonio, producendo al contempo un legno di maggiore valore. Quanto agli oceani, il semplice abbandono della pesca eccessiva – in particolare quella a strascico – ha un effetto positivo sul rinnovo delle risorse ittiche.
Se ci pensiamo, queste buone pratiche sono, in fondo, delle evidenze. Senza dubbio dobbiamo reimpararle, modernizzandole, perché anche la tecnologia può svolgere un ruolo nei modelli rigenerativi di oggi. Sentirci parte integrante della natura, prendere coscienza della nostra precarietà è indispensabile per riconnetterci pienamente alla vita, proiettandoci verso le generazioni future.


