Il Meglio del Piccolo

Prime in economia e ultime in Patria

Come vengono valutate le PMI nel Paese che vanta, grazie a loro, un importante primato economico in molti settori a livello internazionale?

E’ da quasi 30 anni che mi occupo di queste aziende e la considerazione nei loro confronti, anche dopo lo sconvolgimento della pandemia, non mi pare granché cambiata. Di piccola impresa in Italia si parla ancora troppo poco, spesso male o solo per opportunismo. Personalmente lo ritengo grave ma mi interessa capire cosa ne pensate voi lettori de “Il meglio del piccolo”.

 

Provo ad argomentare, in sintesi, il giudizio di partenza dalla prospettiva che conosco meglio: quella della formazione aziendale.

Delle piccole imprese si parla poco

  1. Delle piccole imprese si parla ancora troppo poco. Partiamo dall’accademia ovvero dal luogo in cui si dovrebbero promuovere le cornici di lettura dei fenomeni economici e sociali e preparare le nuove generazioni. Nel paese delle PMI familiari i corsi specificatamente rivolti a questo segmento dimensionale nelle singole università si contano sulle dita di una mano e può tranquillamente capitare che un giovane studente in uno dei più prestigiosi atenei italiani si laurei in economia senza mai aver sentito citare un caso, un modello o una ricerca sulle piccole imprese. Sembrerebbe paradossale ma è la norma. Stesso film nelle nostre migliori business school, peraltro affollate di imprenditori: i corsi che hanno nel titolo l’acronimo PMI sono delle eccezioni così come i formatori che hanno davvero sviluppato contenuti specifici. Rarità delle rarità. Se ci spostiamo nelle scuole superiori, tema arcinoto, troviamo una povertà quasi assoluta di riferimenti (e non solo) proprio negli istituti tecnici, esattamente nei corsi dove dovrebbero formarsi i tecnici del domani, profili ricercatissimi dalle piccole imprese italiane.

Delle piccole imprese si parla male

  1. Delle piccole imprese si parla spesso male. Non solo vengono perlopiù ignorate ma se tirate nella mischia vengono criticate. In primo piano vengono messi sempre i vizi da correggere: troppo piccola, troppo poco manageriale, troppo familiare, troppo vocata a settori tradizionali senza capacità di innovazione. Per non parlare poi dello spazio riservato ai nostri imprenditori nel cinema, a teatro, in letteratura o nelle fiction televisive: sono spesso dipinti come sfruttatori, evasori, profittatori, corrotti, faccendieri ad eccezione del solito Adriano Olivetti e di pochi altri eletti a santini dagli intellettuali che fanno cultura. Lo stereotipo e l’ideologia regnano sovrane.

Di piccole imprese si parla per opportunismo

  1. Di piccole imprese, se accade, si parla per interesse di breve periodo, per vendere, senza una vera convinzione, anzi, sotto sotto pensando ancora che gli imprenditori siano un po’ limitati. E’ successo negli ultimi anni - a mio parere già dopo la crisi di Lehman Brothers nel 2008 - che qualcuno si è accorto che proprio il popolo dei “piccoli” aveva tenuto in piedi la nostra economia anche dopo lo tsunami della crisi finanziaria che arrivava dalla nazione con un modello di capitalismo opposto al nostro, quello teorizzato come ideale dai detrattori. Capito che a breve non saremmo diventati quello che per storia e vocazione non eravamo mai stati e che non conveniva perdere tutti i nostri primati sui mercati internazionali per inseguire una utopia dai risultati incerti, i più acuti hanno iniziato a orientare i loro prodotti e servizi verso questo segmento dimensionale. Sono emerse allora la banca, il fondo, il mercato azionario, l’assicurazione, il consulente per le piccole imprese che, guarda a caso, potevano rappresentare un mercato locale molto interessante, potevano essere dei buoni clienti. Nessun vero coinvolgimento ma solo utilità tattica. Opportunismo allo stato puro.

 

E’ grave. Non va bene. Non ha senso riservare questo trattamento alle aziende che ci permettono di essere sul podio a livello internazionale in moltissimo comparti. Occorre cambiare tendenza.

Non possiamo disconoscere e non sostenere il nostro modello originale di sviluppo economico.

 

Alcuni segnali di inversione ci sono, qualcuno si sta muovendo nella direzione opposta. ma sono “cigni neri”. Penso all’impegno del giornalista Dario Di Vico prima e al lavoro che Raffaella Polato sta facendo dal 2016 al Corriere Economia in parallelo all’editore Filiberto Zovico con il racconto delle piccole imprese eccellenti e dei loro territori in Veneto ed Emilia Romagna, con il festival Città Impresa e il premio Letteratura d’Impresa. Si tratta di nicchie costruite “dal basso”, neanche a dirlo in chiave imprenditoriale, dentro il mondo editoriale dei poteri forti, nicchie che stanno funzionando molto bene, grazie all’intuizione a alla bravura di chi le porta avanti. Allo stesso modo posso testimoniare la presenza di interstizi dedicati allo studio e alla formazione delle PMI all’interno dell’accademia o delle scuole di formazione blasonate a livello internazionale. Eccezioni positive si trovano anche in certe scuole tecniche che diventano fucine di talenti per le imprese di minori dimensioni. Insomma qualche “twitter” si coglie nell’aere. Ma bisogna andare avanti e fare molto di più.

 

Gli imprenditori in primis dovrebbero essere più consapevoli, non dovrebbero più tollerare di essere ignorati o  trattati da “minorati”, dovrebbero discernere le finte carezze o quantomeno replicare con la stessa moneta. Ai soggetti di nicchia che operano nel mondo della cultura e che davvero credono nel segmento portante della nostra economia, chiederei invece di portare avanti questo lavoro titanico con passo da montagna, di mettere il più possibile a fattor comune le diverse esperienze per cercare insieme le parole giuste, per un racconto e una progettualità che ai piani alti ancora non c’è ma che non può mancare.

Uniamo le forze in modo che gli ultimi diventino i primi.

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