

“Io vi devo dire che, al giorno d’oggi, quasi mi auguro che i miei figli rientrino in casa la sera con le ginocchia sbucciate!”.
Così ha iniziato il suo intervento un manager che nell’ultimo mese mi è capitato di incontrare in aula. Si parlava di metaverso e dell’impatto che le nuove tecnologie hanno sull’essere umano, e, in particolar modo, sui giovani.
Quando ci si accinge ad esplorare questa nuova invenzione, le reazioni sono quasi sempre disparate, e, spesso e volentieri, si collocano su estremi opposti: entusiasmo e paura, curiosità e repulsione. E a volte capita perfino di vederle sussistere all’interno dello stesso individuo. Chiaro segnale del fatto che ancora non sappiamo bene cosa aspettarci da questa realtà virtuale.
Le notizie che ci arrivano sono svariate e, volendo ben vedere, non è poi così difficile informarsi rispetto ai vari tipi di realtà virtuale presenti sul mercato, ai target coinvolti, agli scopi per cui questa tecnologia può essere utilizzata e al tipo di esperienza che offre.
L’informazione non manca. Al contempo, ciò che tutt’ora risulta scarsa è l’educazione dei nuovi utenti all’utilizzo di questi strumenti. In altre parole, si è propensi a istruire ma non ad educare. “Istruire” deriva dal latino “in-struere” che significa “inserire/portare dentro”, ovvero inserire qualcosa dentro un contenitore, inserire nozioni dentro un soggetto.
“Educare”, invece, deriva dal latino “ex-ducere” che letteralmente vuol dire tirare fuori, far venire alla luce qualcosa che è nascosto. Si tratta di due approcci estremamente diversi nel relazionarsi con ciò che è nuovo. Nel primo, il soggetto che ascolta assume un ruolo passivo, di semplice ricezione di informazioni che saranno verosimilmente standard per una molteplicità di individui. Assimilate le informazioni, dovrà interpretarle sulla base del proprio percepito e senza un termine di paragone rispetto alle scelte che farà in merito. Nel secondo caso, invece, l’individuo assume un ruolo attivo. L’individuo non è in secondo piano, anzi diventa il punto di partenza. Obiettivo dell’educatore, infatti, è quello di scoprire e mettere in luce il potenziale del singolo attraverso un lavoro di costante confronto con la realtà, perché questi possa crescere e rapportarsi nel modo più efficace possibile con gli elementi costitutivi della realtà stessa. Questo implica un processo di conoscenza di chi si ha di fronte. Conoscere il suo punto di vista e la posizione da cui parte, i suoi punti di forza e i suoi limiti. È certamente più facile e veloce fornire nozioni. Meno veloce è adattare il contenuto rispetto all’interlocutore.
Ma se si trattano i soggetti come individui “passivi”, come si fa poi a pretendere che siano capaci di un approccio proattivo e un sano spirito critico rispetto a ciò che gli viene proposto? Se, al contrario, li si aiutasse e li si supportasse nel diventare sempre più consapevoli di sé stessi e di ciò che li circonda, si promuoverebbe il vero processo di conoscenza, che è alla base dello sviluppo dell’essere umano.
Come si è già visto con i social media, non basta il libretto delle istruzioni perché gli utenti, specie se giovani, siano in grado di fare un uso corretto degli stessi. Abbiamo assistito ad un’adozione di massa per poi renderci conto solo successivamente dei reali benefici e costi per l’essere umano. E alcuni costi ancora non sono stati sanati.
Il progresso tecnologico è senza dubbio una componente fondamentale del nostro futuro e un’opportunità unica, ma non può (o almeno non dovrebbe) avanzare senza un’educazione che abbia a cuore in primis il progresso dell'essere umano.
Perché, come disse Andrè Malraux, il problema fondamentale è che la nostra civiltà, che è una civiltà della macchina, può insegnare all’uomo tutto ad eccezione di come essere uomo.


