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Ho sbagliato!

Espressione breve. Reazioni molteplici.

Spesso negative, specie quando a pronunciarla è un proprio collaboratore e, al contrario di quanto si possa immaginare, quando si è impostata con quest’ultimo una relazione di fiducia. Sì, perché ci si sente traditi. E le uniche alternative plausibili sembrano essere “punire” o “fare finta di niente”. Della serie “va tutto bene finché va tutto bene”.

Forse che impostare il rapporto con i collaboratori su fiducia ed empatia significa accettare, prendere per buono tutto quello che fanno? Assolutamente no. Non bisogna confondere il desiderio di creare una connessione positiva con l’altro, con il giustificare e l’accettare ogni suo giudizio o atteggiamento.

Esistono circostanze in cui chi è alla guida deve prendersi la responsabilità (e la fatica!) di dire “no” o “fai questo e non quell’altro”, senza farsi spaventare dalla solitudine e dall’impopolarità, almeno iniziale, che tale decisione comporta.

Questo deve avvenire quando il prezzo da pagare (cioè le conseguenze) per una data azione è giudicato superiore ed eccessivo rispetto ai potenziali benefici che se ne potrebbero ricavare. Un collaboratore poi (salvo nei casi in cui questo risulti evidente) chiederà il perché, le ragioni di questa decisione. Ben venga. Creare un clima in cui sia possibile, nel rispetto dei tempi e degli impegni reciproci, chiedere, spiegare e discutere i motivi di certe decisioni scelte o di certi processi, sta diventando fondamentale. Viviamo, infatti, in un mondo dove il sapere è ormai alla portata di tutti. Raro è invece trovare qualcuno che aiuti e ne aiuti e promuova l’interpretazione. Chi è l’interprete? È colui che media. Il suo compito è quello di rendere comprensibile al suo interlocutore, ciò che altrimenti, senza il suo intervento, rimarrebbe incomprensibile.

 

Nei vari tentativi che quotidianamente facciamo di andare da A a B possono insorgere diversi ostacoli e difficoltà. Compito di chi guida è di aiutare i propri collaboratori a districare quel groviglio di imprevisti, interpretandone correttamente l’entità, la valenza, etc. In questo tortuoso processo, può certamente capitare di commettere degli errori. Se lasciati a sé stessi gli errori verosimilmente restano semplicemente degli “sbagli”. Se, invece, vengono correttamente interpretati e compresi, possono assumere un carattere tutt’altro che negativo ed essere letti visti come sperimentazioni (avendo ovviamente a mente il noto detto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, ovvero «errare è umano, ma perseverare è diabolico»).

In questo sta la correzione. Correggere non significa punire, ma piuttosto dirigere, reindirizzare. Un singolo errore può essere un’opportunità per aprire un dialogo, e fare luce su quanto è successo può portare a nuove soluzioni. Charles Kettering, grande inventore americano e responsabile dell’area ricerca e sviluppo in General Motors dal 1920 al 1947, amava dire che un buon ricercatore fallisce ogni volta, tranne l’ultima. Stesso pensiero quello di Thomas Watson, presidente e amministratore delegato di IBM, che tra il 1914 e il 1956, trasformò in una vera potenza economica internazionale: egli sosteneva che “il modo più veloce per avere successo è raddoppiare il tasso di insuccessi”.

 

Esiste una paura diffusa di sbagliare, per l’imbarazzo, l’insuccesso, e a volte anche le conseguenze, che questo comporta. Ovviamente, come già discusso, esistono errori ed errori. In nessun momento, per esempio, è accettabile (e quindi tantomeno da incoraggiare) un errore che metta a repentaglio salute e sicurezza.

 

Incoraggiare l’errore non significa chiudere un occhio. Anzi. Significa, per chi occupa posizioni di responsabilità, aprirne dieci. Significa non rinunciare alla propria responsabilità di valutare la natura del fallimento. Come sottolineato da Richard Farson e Ralph Keyes, i leader disposti a guardare ed esaminare l’errore commesso per capirne la causa e identificare se si tratti di un errore «ammissibile» o meno, sono quelli che fanno la differenza, soprattutto quando si tratta di innovare. Spesso ponendo domande piuttosto semplici come «Il progetto è stato pianificato coscienziosamente o è stato organizzato senza cura?» oppure «L’errore poteva essere evitato con una ricerca più approfondita?».

In altre parole, chi fa la differenza oggi è chi ha ancora la voglia e il coraggio di insegnare, e di contribuire allo sviluppo dei propri collaboratori.

Voglia perché occorre essere pazienti, saper scegliere il momento, saper capire chi si ha di fronte. Coraggio perché occorre costantemente mettersi in gioco; non si può starsene seduti a impartire ordini. È necessario affiancare (ma non sostituire!) i rispettivi collaboratori perché imparino il più velocemente possibile il mestiere.

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